L'APARTHEID
Avete presente i coccodrilli? O meglio, più nello specifico, avete
presente i coccodrilli in quanto animali che hanno una straordinaria
capacità di restare immobili, fermi come sassi per lungo tempo? Credo
che l’immobilità dei coccodrilli abbia qualcosa di spirituale, di
ipnotico.
Una volta allo zoo di Pistoia ne ho visto uno, un coccodrillo enorme, che se ne stava acquattato sulla superficie di un laghetto artificiale, era così fermo ma così fermo da sembrare morto, finto, non sbatteva la palpebra di un occhio (che poi i coccodrilli non hanno vere e proprie palpebre, ma soltanto una pellicola di protezione), non smuoveva nulla del suo corpaccio squamoso, nemmeno l’artiglio di una zampa. Per un attimo ho addirittura pensato che fosse un esemplare di gomma o di plastica, una simulazione tridimensionale messa lì al posto di un coccodrillo vero, che magari il coccodrillo vero era deceduto e la direzione dello zoo, per risparmiare, aveva commissionato una copia in tre D a una ditta specializzata. Oggi, con le nuove tecnologie, fanno cose incredibili, delle imitazioni perfette in ogni minimo particolare che uno, anche aguzzando bene la vista, non riesce mica a distinguere una copia dall’originale. Poi, quand’ero lì allo zoo di Pistoia, dopo dieci minuti abbondanti (un’eternità) che lo guardavo, incantato perché il coccodrillo è un animale che mi piace molto (insieme all’elefante e al rinoceronte), all’improvviso il coccodrillo ha sbattuto un occhio. Ho avuto un brivido, ho fatto un passo all’indietro, spaventato. Non me l’aspettavo. Altro che falso, era vivo, il fetente! Parlo dei coccodrilli perché ho preso a modello la loro immobilità per una vibrante protesta che ho imbastito contro la mia famiglia, un gesto clamoroso, eclatante, capace di attirare l’attenzione dei miei cari, la mia mogliettina (sic) Carla, che ho sposato cinquant’anni fa, e due figli adulti, Marcello e Anita, rispettivamente di 23 e 27 anni, che ancora vivono da noi, poveri angioletti fannulloni, non avendo un lavoro fisso. Vi sembrerà strana come forma di protesta, restare immobile come un coccodrillo, pietrificato, senza muovere nemmeno la curvatura di un pelo. Nulla. Non è un espediente che capita di vedere tutti i giorni, capisco che possa stupire. Mi sono deciso a questa forma estrema di protesta (che qualcuno, forse, giudicherà puerile) dal momento in cui nessuno nella mia famiglia, dico nessuno, né la mia mogliettina adorabile né i miei figli, si prende la briga di relazionarsi con me, di ascoltarmi, di concedermi la giusta attenzione che credo di meritare, non foss’altro per il fatto che sono io il capofamiglia, quello – l’unico – che porta il lesso a casa, come diciamo noi toscani. Ciò nonostante, la tendenza ormai irreversibile, dominante in casa mia è quella d’ignorarmi, di far finta che non esisto, come se fossi da un’altra parte, al bar o perennemente in ufficio. Così un giorno, esattamente il giorno dopo aver visitato lo zoo di Pistoia insieme a un gruppo di amici animalisti (a volte le idee nascono in seguito a circostanze banali, come la visita a uno zoo), stufo di subire in famiglia quel trattamento odioso, quella segregazione umiliante, quella specie di apartheid insopportabile («apartheid» è la parola giusta, forte, ma giusta perché rende bene il clima pesante, discriminatorio che respiro fra le mura domestiche), metto in atto la mia protesta. Una forma di non collaborazione assoluta di cui vado orgoglioso, uno «sciopero bianco dei movimenti corporali» contro «il regime familiare», detto in sindacalese. Nemmeno i militanti dell’Ira l’hanno mai sperimentato uno «sciopero» così. Senza nessun preavviso, di punto in bianco, al mattino, dopo colazione, mi siedo sulla mia poltrona, al centro del salotto, allungo le braccia sui braccioli di pelle della poltrona e mi dispongo serenamente all’inezia totale: busto eretto, occhi sbarrati in avanti, bocca leggermente socchiusa, camicia e pantaloni stirati a puntino, senza gli occhiali da vista che uso solo per leggere. In altre parole, non mi muovo più. Sono una statua vivente. Un monumento alla fissità. Immobile, come un coccodrillo. – Papà, sbrigati che andiamo a tavola. Come potete immaginare, mi guardo bene dal rispondere. Non fiato. Resto bloccato nella mia postura, incapsulato dentro l’isola felice della mia poltrona, eletta a rifugio protettivo. Gli occhi fissi, come un allocco. Lo scontro è deflagrato, vediamo come si mettono le cose. E sapete come si mettono? Che cosa succede? Nulla. Non succede nulla. Mia moglie e i miei figli si mettono a tavola nei loro soliti posti e mangiano, tranquilli, conversando del più e del meno, come se io non esistessi. Del resto, questa è la norma in casa mia. Li sento che ridono di non so quale battuta, Anita risponde al cellulare facendo arrabbiare la madre che non vuole si tenga il cellulare acceso mentre si mangia. Finito il pranzo, si sparecchia la tavola (mansione riservata a turno a Marcello e Anita), dopo di che gli affabili componenti della mia famiglia (i miei aguzzini) si ritirano nelle rispettive stanze, a riposare, o leggere, o guardare la tv. Nessuno che muova un dito, che si preoccupi di quello che sto facendo (o non facendo). Sono lì, rigido come un salame, imbalsamato nella mia poltrona, ma i miei continuano a non vedermi, a non curarsi di me. Prima di andare a dormire, sento mia moglie che, mentre si spalma della crema sul viso, mi chiede: – Tutto bene, caro? Queste sono le ultime parole che mia moglie ha la bontà di rivolgermi prima di coricarsi e spegnere la luce. Resto al buio in salotto, sulla mia poltrona, tristemente solo (i miei figli sono andati al cinema). Avrei voglia di piangere, ma, anche se nessuno dei miei familiari può vedermi, continuo a restare immobile. Un manichino. Non voglio dar loro questa soddisfazione. Per ingannare il tempo, e restare sveglio, penso al coccodrillo dello zoo di Pistoia, che sembrava finto o morto, alla sua corazza da bestia quasi preistorica. Martedì, nel pomeriggio, arrivano a casa due omoni dell’Ikea, in canottiera. Sono due rumeni, sembrano degli avanzi di galera, spalle larghe, bicipiti da culturisti, capelli cortissimi, uno ha il codino. Devono montare una libreria che abbiamo ordinato un mese fa. In casa mia si legge molto, per fortuna. Nel frattempo, la mia protesta continua. Deciso a tutto, non demordo. Sono saldamente ancorato in poltrona, una mummia senza bende, ormai da due giorni, nella totale indifferenza familiare. Come sempre, per loro, sono invisibile, il fisico Griffin, «Lo Sconosciuto» de L’uomo invisibile di Wells (romanzo fra i miei preferiti). Maledetti ingrati, la mia immobilità coccodrillesca non li muove a nessuna compassione. In ogni caso, non ho intenzione di mollare, da qui non mi schiodo, cascasse il mondo. Il mio motto è: «RESISTERE! RESISTERE! RESISTERE!». Dopo aver offerto loro un caffè, mia moglie istruisce gli omoni dell’Ikea che, da quanto mi è dato di capire (li sbircio con la coda dell’occhio), non gli frega niente di vedermi in quello stato comatoso, paralizzato sulla poltrona. Magari pensano, poveretto, ha avuto un ictus. Giustamente si fanno gli affari loro, sono lì per montare una libreria. – Potete spostare quella poltrona, per favore, – dice mia moglie, indicando la mia poltrona – e metterla in quell’angolo laggiù? – Ma c’è un signore sopra? – protestano i rumeni. – Ah, sì, non preoccupatevi, è mio marito – li tranquillizza Carla – procedete pure.
giugno 2024 ___________________________
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