Paolo Albani
L'IPERSENSIBILE
C'è un lato della
nostra personalità - non sempre
il migliore - che, a volte, si fa largo dispotico e diventa con il
passare
degli anni dominante, prende il sopravvento sugli altri (anche
centomila
se crediamo a Pirandello) che convivono dentro di noi. Quando
ciò
avviene, quel lato si arroga il diritto di condizionare la nostra vita
sospingendoci in quel fantasioso campionario di figure umane che
portano
appellativi sintomatici (e caricaturali) come «il cinico»,
«il ribelle», «il menefreghista», «lo
scettico»,
«il rubacuori», «lo sfaccendato», «il
fatalista»,
«il solitario», «l'indifferente», «il
generoso»,
«l'arrivista», «l'imbranato», eccetera
eccetera.
Calogero Furlan era un tipo sensibile, uno dal cuore tenero,
una pasta d'uomo, forse anche troppo. Nel fantasioso campionario di
figure
umane di cui sopra si sarebbe trovato alla voce:
«l'ipersensibile».
Di quelli che le sofferenze del mondo sono tutte sulle proprie spalle,
al punto che quando, per strada, passava un'ambulanza a sirene
spiegate,
per prima cosa (era una reazione più forte di lui) si metteva a
gridare tappandosi le orecchie, preso da uno sconforto irrefrenabile
per
la poveretta o il poveretto che si erano sentiti male, poi scoppiava in
un pianto a dirotto, che qualcuno, vedendolo in quello stato, pensava:
«È un parente dello sfortunato sull'ambulanza!»
Nel suo podere, che si estendeva per una cinquantina di ettari
pianeggianti, aveva messo delle reti protettive, delle reti color
arancione
come quelle che si usano, specie in certe zone della Liguria o
dell'alta
Toscana, per la raccolta delle olive. Le aveva disposte intorno agli
alberi,
a un metro circa di altezza, in modo che le foglie, in autunno, cadendo
a terra, non si facessero male. «Perché le foglie che si
staccano
dai rami», sosteneva Calogero Furlan, «a differenza di
quanto
comunemente si crede, non sono "morte", ma è come se andassero a
dormire, entrassero in letargo».
Calogero Furlan era fatto così, un tipo dalla commozione
facile, un romantico. Era così sensibile che a teatro, ogni
volta
che l'orchestra e il coro attaccavano il «Va' pensiero» di
Verdi, lui scattava in piedi e nello sconcerto generale del pubblico
gridava:
«Viva l'Italia!»
D'inverno, durante i giorni freddi di gennaio (i giorni della
merla che uno, in campagna, se ne sta volentieri al calduccio,
sprofondato
in poltrona con i piedi a sfiorare le fiammelle scoppiettanti del
caminetto),
quando si formano delle lastre di ghiaccio lungo i viottoli di
campagna,
nei dislivelli del terreno dove ristagna l'acqua piovana che, di notte,
si trasforma in ghiaccio, Calogero Furlan, allarmato, correva ai
ripari.
Ben coperto, con un passamontagna tirato giù fino al collo,
sfidando
il freddo, prendeva una prolunga elettrica e il fon, e si metteva
ginocchioni
davanti alle lastre di ghiaccio che affioravano intorno alla sua casa
colonica,
e a una a una le riscaldava con il soffio benefico del fon, in modo che
il ghiaccio non si crepasse di schianto, non si ferisse procurandosi
laceranti
irritazioni, ma si sciogliesse gradatamente, piano piano, in maniera
indolore.
Dappertutto nel podere di Calogero Furlan, là dove
spuntavano
fuori delle ragnatele, queste erano ricoperte di stracci, per lo
più
ricavati da vecchi maglioni sdruciti, messi lì a proteggerle dal
gelo invernale. Viste da lontano, quelle bizzarre imbracature, in
prevalenza
lanose, specie quelle imprigionate fra i rami disarticolati degli
alberi,
sembravano piccoli aquiloni andati distrutti, traditi dalle raffiche
scomposte
del vento.
Zappettando due giorni di seguito dietro casa, nello spiazzo
umido che lambiva un boschetto di noci, fra un impegno di lavoro e
l'altro
(faceva il rappresentante per una ditta di elettrodomestici di Milano),
Calogero Furlan aveva costruito delle piste
«preferenziali»,
affiancate da muretti a secco alti quasi trenta centimetri, per la
circolazione
esclusiva delle lumache. Le aveva tracciate con estrema precisione
«onde
evitare deplorevoli spappolamenti» - spiegava ai curiosi che
attraversavano
il suo podere e notavano quegli incomprensibili solchi disseminati qua
e là di bandierine di carta con su stampata l'immagine di una
lumaca.
Per invogliare quest'ultime a incamminarsi verso le piste riservate
alle
loro lente escursioni, sparpagliava in giro per tutto il podere, fin
dove
la radura ben lavorata prendeva la forma di un misterioso circuito, una
sorta di otto volante agreste, della lattuga tagliata a pezzettini di
cui
le lumache, creaturine vegetariane, sono golose.
Anche Calogero Furlan era vegetariano, e disprezzava i sanguinari
che si nutrono di carne e ingrassano i loro cervelli di idee balzane,
come
quella che la carne sia un nutrimento indispensabile per crescere sani
e forti. Balle! Era da una vita che lui mangiava solo verdure crude e
si
era trovato benissimo: bollirle o cuocerle in padella neanche a
pensarci,
per non farle soffrire, ma anche perché, una volta cotte, le
verdure
perdono gran parte del loro potere vitalizzante.
Un'altra stranezza di Calogero Furlan, che aveva origine dal
suo cronico stato di «ipersensibile», riguardava i vini.
Quando
comprava del vino sceglieva solo quello confezionato in bottiglie con
il
tappo di metallo, da svitare con un semplice movimento della mano,
poiché
inorridiva all'idea di dover trafiggere un tappo di sughero
sbriciolandone
atrocemente il corpo con la punta sinuosa, implacabile del cavatappi.
Si
sentiva male al solo pensiero di adoperarsi in un atto così
violento,
gratuito, e allo stesso tempo sproporzionato rispetto all'obiettivo
finale.
Fra le molte azioni che gli spezzavano il cuore, e che
perciò
si rifiutava di compiere, senza per questo sentirsi un eroe, c'era in
primo
luogo l'affettare il pane, dissezionarlo con un coltello-bisturi ben
affilato,
tanto che si era ridotto a mangiare solo grissini, fette biscottate,
toast
(evitando di abbrustolirli) e cracker; e poi ancora si guardava bene
dallo
strizzare i panni dopo il lavaggio; odiava profondamente spremere gli
agrumi;
sbattere le uova; segare la legna, cosa che gli impediva di eseguire -
che orrore! - la potatura delle piante; dormire su cuscini di piume
d'oca,
per non schiacciarle (le piume) con il peso del proprio corpo;
preparare
il battuto triturando cipolla, prezzemolo e altri ingredienti (la
mezzaluna
era uno dei numerosi strumenti di tortura banditi dalla sua
cucina);
togliere i semi dai pomodori o gli acini dall'uva, gesti che ai suoi
occhi
apparivano «abominevoli operazioni di squartamento».
Calogero Furlan fu uno dei primi (un precursore nel suo piccolo)
a lavare l'insalata con il sistema del mulinello. Poiché gli
ripugnava
- sempre per via della sua smodata ipersensibilità -
l'antiquato,
grossolano metodo di asciugare l'insalata strizzandola (strozzandola!)
con le proprie mani, o ficcandola in un panno e sbatacchiandola
ripetutamente
su una superficie piana, si era costruito, con la complicità di
un amico fabbro, un marchingegno simile ai sofisticati «asciuga
insalata»
di plastica che si usano oggi.
In pratica il marchingegno era così concepito: dentro
una pentola aveva messo uno scolapasta di alluminio che capovolto, a
parte
i forellini, assomigliava a un elmetto militare, di quelli usati dai
tedeschi
durante la prima guerra mondiale; poi aveva applicato al coperchio
della
pentola una manovella, presa da un macinino del caffè. Una
barretta
tonda di acciaio collegava la manovella allo scolapasta in modo che,
azionando
la prima, si metteva in moto il secondo che a sua volta, ruotando a
forte
velocità, consentiva di asciugare l'insalata senza torcerle una
foglia.
Di quell'oggetto, che mai aveva pensato di brevettare (a
testimonianza
della passione disinteressata che lo animava), concepito solo per
sottrarre
l'insalata all'umiliazione di un sadico maltrattamento, Calogero Furlan
andava orgogliosissimo. C'era così affezionato che, quando gli
amici
lo invitavano a cena, se lo portava dietro in una sporta di tela.
«State
bene a guardare», esclamava prima di mettersi a tavola sollevando
in aria la sua invenzione, impaziente di farne vedere il funzionamento.
«Ora assisterete al riscatto dell'insalata!»
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