La mia idea è che l’immobilità
sia una condizione tutto sommato vantaggiosa, che abbia una sua
utilità, un suo valore strategico esistenziale non indifferente. Ci sono
certi animali (ad esempio il gatto con un volatile) che restano
immobili per lungo tempo al fine di catturare delle prede, altri invece
che s’immobilizzano per non farsi sorprendere da un predatore,
sviluppando vere e proprie strategie di camuffamento nella speranza di
non essere visti, confusi in una vegetazione colorata allo stesso modo
del proprio corpo (atteggiamento tipico di alcuni insetti, fra cui il
più noto è l’insetto stecco, altrimenti detto Bacillus rossius, che assume la forma di foglie, bastoni o rami per trarre in inganno eventuali assalitori).
Nel mondo che ci circonda l’immobilità è un fenomeno
diffuso, dominante: pensiamo ad esempio alle piante che restano piantate
nel luogo in cui nascono e crescono fino alla fine della loro esistenza
e non hanno nulla di cui lamentarsi; al contrario le piante fanno
dell’immobilità la loro forza vitale: un albero che camminasse, che si
spostasse da un punto all’altro di una collina portandosi dietro tutto
il suo bagaglio di rami e di foglie, romperebbe l’equilibrio naturale
del nostro ecosistema, sarebbe un controsenso, un’anomalia vegetale.
Oltre alle piante, sempre ragionando in termini d’immobilità, ci sono le
statue che brillano per la loro staticità cronica: i santi sulle
facciate delle chiese, i putti delle fontane, le persone (alcune delle
quali storicamente importanti) e gli animali rappresentati in certi
monumenti.
Quanti Garibaldi a cavallo, con la sciabola sguainata
o una mano protesa in avanti a indicare non si sa bene cosa (eppure
ogni volta, osservando quella mano, viene voglia di guardare nella
direzione che indica), si concedono inerti al nostro sguardo in tante
città italiane e anche all’estero? Se passiamo in giorni o mesi diversi
da Villa Falcone e Morvillo a Palermo, la statua di Garibaldi, modellata
dallo scultore palermitano Vincenzo Ragusa e fusa in bronzo a Roma
nella fonderia del cavaliere Alessandro Nelli, è sempre lì che ci
aspetta, paziente, ferma nella sua plasticità, insieme al leone bronzeo,
accucciato ai suoi piedi, simboleggiante la Libertà mentre spezza le
catene della tirannia borbonica. Se tornate a villa Falcone e Morvillo a
distanza di anni, potete star tranquilli: Garibaldi è sempre lì, non si
è mosso di un millimetro, non è mai sceso da cavallo, non si è mai
assentato dal blocco di cemento che lo sostiene per sgranchirsi le gambe
nel Giardino Inglese della villa. In questo caso, sappiamo che la mano
di Garibaldi indica a Nino Bixio la nuova direzione da intraprendere
nell’attimo in cui l’eroe dei due mondi pronuncia la storica frase:
«Nino, domani a Palermo!»
A proposito di monumenti, se mai un giorno vorranno
farne uno a me – gli venisse in mente per sbaglio all’amministrazione
della mia città natale, un azzardo del sindaco: non credo ci siano tanti
cittadini illustri nati a Marina di Massa, per cui la cosa potrebbe
essere anche fattibile (ma io non ci tengo, lo dico subito, a scanso di
equivoci) –, allora mi piacerebbe che mi rappresentassero seduto, in
panciolle, con l’aria serena, il massimo dell’immobilità
nell’immobilità, come la statua che c’è a Lucca dedicata a Giacomo
Puccini, dove il maestro, seduto su una comoda poltrona con ampi
braccioli, stringe fra le dita della mano destra un mozzicone di sigaro
(anche Marx, o meglio la sua imponente statua in bronzo, è seduto in uno
spazio verde del quartiere Mitte a Berlino, mentre il suo amico Engels,
al fianco, è in piedi).
Sono forse le tracce più emblematiche e probanti
dell’immobilità sulla superficie terrestre: sto parlando dei lampioni
che fiancheggiano le strade e le autostrade, belli dritti, poggianti su
una gamba sola, inchiodati al terreno sia con le luci accese che spente.
Non esiste che un lampione, di giorno o quando cala il sole, perda la
testa e cambi posizione di sua iniziativa, che si allontani, a piccoli
salti, dal raggio di azione che gli compete. Non è nel suo modo di
essere «faro» nella notte e nella nebbia. Un lampione è affezionato al
punto-luce assegnatogli dalle direttive del piano regolatore, non
tradirebbe mai la sua immobilità e la fiducia degli altri lampioni con
cui s’allinea, è una questione di amicizia.
La stessa filosofia immobilista pervade i lampioni
nei parchi pubblici e i pali della luce come pure i tralicci disseminati
nelle campagne, bruttissimi da vedere, ma potenti comunicatori di
energia positiva, senza la quale non si produrrebbe alcun tipo di merce.
C’è immobilità, ovvero assenza di spostamento
logistico, nelle case delle città (almeno fin quando non vengono
distrutte per far spazio a altre immobilità costruttive), negli edifici
ministeriali, nei palazzi storici che stanno dove stanno da un sacco di
tempo con grande soddisfazione di tutti, specialmente dei turisti, e poi
ancora nei marciapiedi (provate a immaginare lo scompiglio sussultorio
provocato da un marciapiedi che si muove!), nei ponti, nei viadotti,
nelle banchine dei porti, nelle mura storiche che ancora sopravvivono, a
dispetto dei terremoti. Sono inamovibili anche le pompe di benzina, le
torri di controllo degli aeroporti, le stazioni ferroviarie (è facile
intuire che se si spostassero le stazioni ferroviarie da un momento
all’altro sarebbe un disastro, il caos totale nella circolazione dei
treni).
Per non parlare dell’immobilità che investe perentoriamente grandi spazi
come le montagne, i promontori, le insenature, le scogliere, le isole
(i continenti no perché i continenti non sono fermi, anzi si muovono in
continuazione andando letteralmente «alla deriva», a causa della crosta
terreste che è composta da tanti piccoli pezzi chiamati placche o
zolle).
L’immobilità più inquietante è forse
quella degli animali imbalsamati, perché non sembra nemmeno immobilità,
ma il prolungamento infinito di un attimo della loro vita, non so come
spiegarmi, in ogni caso è un’immobilità che tende all’illusione di un possibile movimento.
Ho detto all’inizio che l’immobilità è una condizione vantaggiosa. Perché?
A differenza di quanto si crede comunemente, ovvero
che sia uno sgarbo all’innovazione e al mutamento, l’immobilità
rappresenta un gesto di fedeltà al proprio ruolo, alla funzione che
svolgiamo senza lasciarsi sedurre da facili scappatoie o debordanti
fughe dalle nostre responsabilità morali e civili.
Il vantaggio dell’immobilità è renderci amorevolmente
attaccati a una causa, a un obiettivo. Il contrario dell’immobilità è
l’instabilità, la precarietà, la provvisorietà. Se sei un lampione devi
assolvere onestamente alla tua funzione di lampione, senza
tentennamenti, oscillazioni, rispettare la fissità della tua missione
illuminante. Altrimenti dove andrebbe a finire il mondo?
Quando Noemi mi ha confessato di essere andata a
letto con un altro (un altro che conosco bene, perché è il nostro vicino
di casa, un giovane architetto pieno di boria: personalmente l’ho
sempre considerato una «grande testa di cazzo»), e che l’aveva fatto
perché voleva provare nuove emozioni che ormai non si aspettava più da
me, io non ho battuto ciglio, sono rimasto impassibile, rigido come una
pietra, immobile.
Da settimane mi mancano le forze, sono debole, uno
straccio, non riesco a alzarmi dalla sedia (come la statua di Puccini a
Lucca), non ho più messo piede fuori casa, ho disdetto ogni
appuntamento, non mangio. Mi sono paralizzato, non faccio più niente. E
però l’immobilità in cui sono caduto sento che mi aiuta, ha qualcosa di
speciale: mi rende partecipe dell’infinita immobilità che mi circonda,
sono un puntino statico, insignificante all’interno di un cosmologico
immobilismo, e non mi dispiacerebbe che una qualche entità
soprannaturale – Belzebù o Woland in persona – avesse il buon cuore di
trasformarmi in un lampione, di quelli stile liberty, in ferro battuto,
pesanti, per rendere più saldo e tangibile il mio desiderio di restare
immobile a lungo.
settembre 2019
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