DENTRO UN QUADRO
Sono finito dentro un quadro di Edward Hopper. Nel senso che ci sono entrato dentro fisicamente, materialmente, mi sono introdotto, non volendo, dentro un quadro del pittore americano. Non è stata un’immersione mentale, artistica, come si potrebbe pensare. No, l’intrusione è stata proprio reale. Perciò, forse, sarebbe più corretto dire che ci sono caduto dentro, non so bene come, risucchiato con tutto il mio corpo. Il fatto è che, investito da un fascio di luce proveniente da un proiettore forse difettoso (di cui dirò più avanti), mi sono trovato all’improvviso dentro un quadro di Edward Hopper. È stato un attimo. La mia caduta dentro il quadro è avvenuta il 25 marzo 2016 all’apertura di una mostra dedicata a Hopper, famoso soprattutto per i suoi ritratti della solitudine nella vita americana contemporanea, a Palazzo Fava di Bologna. Visito la mostra insieme a un amico, Paolo Pergola. Ecco come sono andate le cose. Quel giorno, dopo una coda di circa quaranta minuti, io e Paolo Pergola visitiamo le sale che accolgono diversi quadri dell’artista americano, centosessanta per l’esattezza, fra cui capolavori quali South Carolina Morning (1955), New York Interior (1921), Le Bistro or The Wine Shop (1909), Summer Interior (1909). È una mostra che vede ben rappresentata la ricerca artistica di Hopper, fin dalle sue prime esperienze a Parigi, dove Hopper si reca affascinato dalla pittura impressionista e dai poeti simbolisti. Ho sempre amato la pittura di Hopper, il suo segno nitido, geometrico, la narrazione quasi iperrealistica, fotografica di un mondo alienato, abitato da personaggi solitari, tristi. Mi ha sempre affascinato la sua poetica: «Se potessi dirlo a parole, – ha detto Hopper – non ci sarebbe alcun motivo per dipingere». Del resto Hopper non dipinge quello che vede, ma quello che prova. In una sala del palazzo viene offerta al pubblico una speciale opportunità: ti siedi sopra una sedia posta davanti alla riproduzione, ingigantita su parete, di Second Story Sunlight (Secondo piano al sole), un olio su tela, 102,1x127,3 cm. Nel quadro, abbastanza noto, si vede la facciata, rischiarata da una luminosità artificiale, di due case che hanno i tetti scuri a spiovente; una delle abitazioni ha una terrazza su cui si trovano due persone: una ragazza bionda in costume da bagno, un due pezzi anni sessanta, seduta sul bordo della terrazza; la ragazza ha la testa girata dalla parte opposta della casa e guarda in avanti (forse verso una spiaggia); accanto a lei c’è una signora con i capelli bianchi che ha un libro aperto in mano, anch’essa intenta a guardare davanti a sé; sulla destra del quadro, in basso, s’intravede l’estremità di un tetto rosso; nel resto del quadro, circa la metà, si scorgono degli alberi verdeggianti. Una volta seduto sulla sedia davanti a Second Story Sunlight, lo spettatore, sotto la luce di un
proiettore, viene ripreso da una telecamera che fa sì che la propria immagine
compaia dentro il quadro, al posto della signora che legge. Il risultato, cioè l’esito
del giochetto ottico, è divertente: tu, spettatore, ti vedi catapultato dentro
il quadro, diventi un personaggio raffigurato da Hopper. L’entrare a far parte
di un’opera artistica è una sensazione curiosa. Un gesto da illusionista. Il quadro di Edward Hopper di cui si parla nel testo è: Second Story Sunlight, 1960, olio su tela, 100 cm x 130 cm, Whitney Museum of American Art, New York City, nell'elaborazione fotografica di Vanni Zani. Quando arriva il mio turno, nella stanza ci sono molte persone che si muovono lentamente, altre sono appoggiate a una parete, tutti in attesa della loro fugace comparsa dentro il quadro. Bisogna fare in fretta. La confusione è palpabile. Siamo pigiati come sardine. Un sorvegliante, nella stanza, regola il flusso degli spettatori, invitando alla rapidità e a non frapporsi lungo la traiettoria che separa la sedia dalla telecamera. Prima di sistemarmi sulla sedia, chiedo a Paolo Pergola di fotografare il quadro di Hopper con la mia figura dentro. Vedo che lo fanno tutti, o quasi. Un ricordo della mostra bolognese. Appena seduto, trovata la posizione giusta, accade qualcosa d’insolito. Un fenomeno che ho difficoltà a descrivere. Sta di fatto che alle mie spalle avverto un’improvvisa corrente d’aria che m’investe, quasi mi travolge, ho come l’impressione di essere afferrato da un’enorme ventosa di gomma, da uno sturalavandini che mi solleva di qualche centimetro e mi trascina con forza dentro il quadro di Hopper. Perché è lì che mi ritrovo, dopo un secondo, in carne e ossa e non come la proiezione di un’immagine. Sono davvero sulla terrazza del quadro di Hopper, accanto alla ragazza in bikini. C’è solo lei. Dopo una prima, comprensibile reazione di sorpresa, la ragazza mi sorride, scende dal bordo della terrazza e comincia a interrogarmi. È molto loquace, cosa che non mi sarei mai aspettato da un personaggio dipinto da Hopper, che uno s’immagina schivo e taciturno allo stesso modo del suo creatore. La ragazza mi fa un sacco di domande, mi chiede a raffica, con un accento apertamente newyorchese, da dove vengo, che mestiere faccio, se sono sposato, se ho dei bambini, che scuole ho frequentato e altre cose ancora. Forse è così loquace perché è da tanto che non parla con qualcuno. – Hey, hey, stop, please – la interrompo. Meglio se parli più piano, le dico in inglese. Mentre iniziamo a fare conversazione, scopro che dalla terrazza del quadro di Hopper si vede, com’avevo intuito, una spiaggia con delle sdraio e degli ombrelloni e un lembo azzurro di mare. Non ricordo quanto tempo sono rimasto dentro il quadro di Hopper a parlare con Josephine, la ragazza bionda. Difficile a misurarsi il tempo da me vissuto nel ruolo d’interprete, o meglio di co-interprete, della tela dipinta dal pittore americano. Non so nemmeno se qualcuno, fra i visitatori della mostra, da fuori, ovvero davanti al quadro, è riuscito a vedermi mentre parlavo con Josephine o se la nostra conversazione si è svolta in uno spazio-tempo privato non visibile, nascosto dietro le quinte del processo creativo che ha messo mano al quadro in cui sono entrato contro la mia volontà, e dunque i personaggi e l’atmosfera metafisica di Second Story Sunlight sono rimasti invariati a un occhio esterno, fedeli a come li ha rappresentati Hopper nel 1960. All’uscita del palazzo ritrovo Paolo Pergola che, un po’ contrariato, mi chiede dov’ero sparito. – Dentro un quadro di Hopper – gli dico candidamente, senza fare una piega, ma lui non mi ascolta, si è girato a guardare una bella ragazza in minigonna che ci ha appena superato, a braccetto con un’amica.
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