Paolo Albani
LINGUE IMMAGINARIE 
E FOLLI LETTERARI:
ALCUNI CASI ITALIANI

Nelle ricerche sui «folli letterari», Raymond Queneau e André Blavier limitarono il loro campo di osservazione ai testi francesi e belgi. Un’indagine analoga non è mai stata condotta sui «folli letterari» italiani, sebbene esista in Italia una quantità considerevole di materiale interessante sull’argomento, ancora in parte sconosciuto.
 A cominciare da quello archiviato dal medico alienista e antropologo italiano Giuseppe Amadei (1854-1919), in un certo senso un precursore di Queneau. Infatti verso la fine del secolo XIX (quindi molto tempo prima della ricerca sui «folli letterari» di Queneau iniziata a partire dal 1930) Amadei studia da psichiatra la “letteratura dei pazzi” e raccoglie, con un lavoro durato parecchi anni, grazie all’aiuto di egregi amici e specialmente per il “generoso e copioso contributo” di Cesare Lombroso, una collezione preziosa e unica di opere stampate di mattoidi e paranoici che affrontano argomenti scientifici, che Amadei chiama «mattoidi scientifici». Queste opere trattano «di filosofia e cosmologia, di teologia e questioni religiose, di scienze politiche e sociali, di scienze giuridiche, di scienze mediche, di psicologia, psichiatria, educazione, di filologia, di storia naturale, di fisica, di astronomia, di meteorologia, fisica terrestre, agricoltura, di matematica, di meccanica».
«Io mi occupo di tutto questo materiale,» scrive Amadei, «cercandovi un contributo allo studio del Delirio. L’argomento del Delirio considerato in sé stesso è molto trascurato e, secondo me, a torto, poiché merita invece, nel momento attuale dell’evoluzione della psichiatria la maggiore attenzione. Mi è parso poi, che importanza anche maggiore tale ricerca dovrebbe assumere, se rivolta a quella forma del Delirio paranoico, che è il Delirio scientifico, quasi punto studiato, e di cui pure tanto ricche, e significanti, e caratteristiche sono le manifestazioni» (Giuseppe Amadei, “I Mattoidi Scienziati. Studi bibliografici”, Bullettino Medico Cremonese. Organo del Comitato locale dell’Associazione Medica Italiana, Fasc. 6, anno IX, dic. 1889, pp. 305-314 e Fasc. 1, anno X, genn.-febbr. 1890, pp. 37-50).
La “collezione Amadei” è oggi consultabile presso la Biblioteca Classense di Ravenna.

 Limitando il nostro sguardo ai «folli letterari» italiani che, nel secolo XX, si sono occupati di lingue artificiali, ovvero agli inventori di «lingue immaginarie», iniziamo con il caso forse più significativo e cioè l’Antibabele, un progetto di lingua internazionale «basata su quell’elemento universale ed eterno ch’è il numero», elaborato dall’avvocato bolognese Gaj Magli (1919-?), autore dell’Antibabele - Lingua nuova: mondo nuovo (Zuffi, Bologna 1950), Antibabele, la vera lingua universale (Tipografia A.G.I., Roma 1952) e L'Antibabele. Dizionario simultaneo di 11 lingue (Gabrielli, Roma 1989). Magli ha scritto inoltre romanzi, sceneggiature e opere teatrali, «segnalate in concorsi nazionali e rappresentate con successo». Un articolo di Magli intitolato «Per una lingua internazionale» appare il 16 novembre 1952 su Il Popolo, organo della Democrazia Cristiana, partito che, a giudizio dello stesso Magli, comprese subito «la grande importanza che l’Antibabele poteva avere per il mondo intero».



I vocaboli dell'Antibabele, presi da 85 lingue di tutto il mondo (compreso l’atzeco, l’ometo, l’uallamo e lo zingaro), sono trascritti in cifre arabe (1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 0 cui corrispondono le lettere A, B, C, D, E, F, G, H, I, J). Alcuni numeri hanno un punto sopra (1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 0 e indicano le lettere K, L, M, N, O, P, Q, R, S, T), mentre altri numeri hanno un punto sotto (1, 2, 3, 4, 5, 6 e indicano le lettere U, V, W, X, Y, Z). 
Ai dieci numeri, per fare in modo che la lingua numerica sia pronunciabile, corrispondono i seguenti suoni vocalici e consonantici:

1      2       3        4    5     6     7        8     9    0
p      b       c (h)   d     t      f     g (h)   m    v     z
a      al       o        ò    e      è     u        ul     i     j

Nel formare le parole questi suoni devono regolarmente alternarsi, tenendo conto che le parole iniziano per consonante e i numeri per vocale. Così, il concetto di «Dio», espresso con la parola latina «Deus», si scriverà: 451(con punto sotto)9(con punto sopra), cui corrisponde la parola: «Depi» (la parola inizia con consonante). Il semplice numero 4519 si pronuncerà invece: «òtav» (il numero inizia con vocale). 
L’accentazione è sempre sull’ultima sillaba, alla francese.
La grammatica è semplice e regolare: vi sono 31 suffissi indicati da certi numeri. Ad esempio: 2 indica il nome comune, 5 il sesso femminile, 6 il plurale, 18 il tempo presente, 49 l'infinito, 69 il dispregiativo, ecc. Per applicare tale grammatica c’è un’unica facilissima regola: «Se la parola deve avere più d’un suffisso, le si aggiunge prima quello che corrisponde al numero minore, poi gli altri in ordine progressivo». Così ad esempio la desinenza di un "nome comune femminile plurale" sarà: 256. 
Per quanto riguarda gli sviluppi dell'Antibabele, Magli sostiene che essa «può divenire sintesi di tutti i mezzi espressivi, mediante apposita corrispondenza fra i numeri, le linee fondamentali delle arti figurative, i colori, le note musicali, nonché le sensazioni acustiche, rinotiche, gustative, tattili, ecc. […] Un segno può assumere il valore d'un altro, se si è nel colore, ad esempio, di quest'altro. Un numero può derivare, anche per semplice addizione o sottrazione, da infiniti altri e indicare quindi col risultato che esprime, il nome, ad esempio, del personaggio raffigurato in un ritratto, o di un monumento, le cui linee compositive, del resto, potranno esprimere tante cose, anche con altri mezzi espressivi, come appunto la musica, ecc. Questo significa, in sostanza, che, con l'Antibabele si può dunque tendere a nuove forme di linguaggio e d'arte, di così profonda ed ampia portata che oggi si possono appena concepire. È evidente pure che una lingua a base di numeri sarebbe assai più facile anche per i ciechi, essendo nota, fra l'altro, la complessità degli attuali caratteri Braille, nonché per i sordi ed i muti, per i quali risulterebbe semplificato l'alfabeto a segni, come la comprensibilità dei movimenti della bocca e l'apprendimento stesso a parlare, nella forma ad essi consentita. Il fatto poi che l'alfabeto si riduce a dieci numeri primi consente una forma nuova di stenografia». 
L'Antibabele è considerata dal suo autore utile per la comunicazione con eventuali abitanti di altri mondi dato che «solo il numero è universale e, tra l'altro, solo la sua ferrea consequenzialità consente di decifrare i più diversi sistemi, per cui, se anche, ad esempio, i Marziani si servissero della base "5" o "due", anziché di base decimale, potremmo sempre tradurla nella nostra e viceversa». 
Magli è autore inoltre di un progetto denominato Inglese integrato, basato su vocaboli inglesi per i concetti astratti e generici del parlare comune e su vocaboli di altre lingue preminenti (l'italiano nell'arte ecc.) per le varie categorie dello scibile.

 Nel gennaio del 1950 esce a Villafranca di Verona presso l’Editrice «L’Estremo Oriente» un opuscolo intitolato Lingua universale di Angelo Faccioli (1888-?), dove viene esposto un progetto di lingua universale basato sul dialetto veneto chiamato Italiano moderno.
 Secondo la «teoria scientifica della parola» del Faccioli la parola vera è quella che meglio ritrae l’armonia imitativa e il senso interno delle cose ed è più in accordo con le leggi dell’arte e del pensiero. La lingua universale dev’essere la lingua più logicamente autentica, la più adatta all’arte oratoria e letteraria; dev’essere semplice e viva. Il dialetto veneto - ben parlato, pulito, ingentilito, senza doppie, con troncamento delle parole che rende poetico, vivace e robusto un idioma, oltre che telegrafico per la soppressione quasi completa dell’articolo - si presta perfettamente al compito di lingua universale. 
 Il dialetto veneto, osserva Faccioli, non ha «alcun suono aspirato come in Toscana e altrove», ma solo suoni «chiari, precisi, ben definiti, inconfondibili». È breve e armonioso come si deduce da questo piccolo esempio: la frase «Sono andato al mercato e ho comperato un paio di buoi» (lettere 43) assume la forma abbreviata: Son andà al mercà e ò conprà un par de bo (lettere 31).
 Faccioli scrive poesie, lettere e traduzioni di passi biblici in Italiano moderno. Il dialetto veneto, conclude Faccioli, una volta affermatosi come lingua ufficiale delle nazioni, cioè fra 400-500 anni, diffonderà nel mondo dei dotti una nuova filosofia, l’Universalismo, dalla quale discenderà il governo universale dell’avvenire.



 Sempre negli anni cinquanta il senese Ilio Calabresi (1931), dipendente del C.N.R., inventa una lingua ausiliaria internazionale che chiama Omnlingua, caratterizzata sul piano morfologico dal recupero della declinazione, con sette casi nella declinazione primaria (nominativo, genitivo, dativo, relativo statico, relativo dinamico o accusativo, vocativo, locativo statico) e sei in quella secondaria (derivativo, fautivo, strumentale, locativo dinamico, invocativo, locativo stabile), dall’adozione di cinque generi grammaticali, di dieci coniugazioni, di tre tipi di preposizioni semplici e di prefissi ottenuti con tre diverse vocali finali, ecc., e dall’uso di alcuni segni particolari, come il segno «"» che indica aspirazione; «¯» rafforzamento o raddoppiamento non enfatico sulle consonanti e allungamento sulle vocali; «^» addolcimento di certe consonanti, ecc.
 La molla che spinge Calabresi a creare l’Omnilingua è, da un lato, la constatazione del fallimento del Volapük e dell’Esperanto, dall’altro il desiderio di «affratellare i popoli di tutto il mondo», dopo le orrende devastazioni della seconda guerra mondiale, in cui per altro Calabresi ha perso il padre.

 Negli anni novanta l’ingegnere milanese Francesco Pietro Cazzulani crea e brevetta una lingua universale «semplice, logica, accessibile per tutte le genti», senza che abbia nulla in comune o di affine con nessuna delle lingue esistenti, adottando questa impostazione: «ad ogni singola parola avente in ogni singola lingua il medesimo significato corrisponde un unico ed identico numero formato da una o più cifre, quindi tante parole di tante lingue aventi un unico significato nella LINGUA UNIVERSALE un unico numero».
 La trasformazione da lingua numerica in lingua alfabetica avviene sulle seguenti basi:

(1)   (2)    (3)    (4)    (5)    (6)    (7)    (8)    (9)    (0)
 ba   ca     da     fe     le      mo    no     po    ru      tu

 Così la parola «madre», «mother», «mère», «Mutter», «mamà», ecc. come pure ogni ideogramma o altra scrittura che significano «madre», è per la lingua universale di Cazzulani equivalente al numero 81, che si pronuncia: «poba». Il termine «lingua universale», corrispondente ai numeri 214 736, si pronunciano: cabafe nodamo.
 Oltre ai dieci accoppiamenti sopraindicati e al vocabolario base (composto da circa 1.500 parole), nella lingua universale di Cazzulani esistono 12 prefissi come «ve», prefisso di infinito verbale che indica il sostantivo di riferimento del verbo; ad esempio: amare = badatu e amore = vebadatu, oppure come «gi», prefisso che trasforma il singolare maschile in singolare femmine: questo cavallo = cale lefemo, mentre questa cavalla = gicale lefemo.
 «Questa lingua universale che è senza grammatica e senza coniugazioni verbali», precisa Cazzulani, «non serve certo a tradurre la Divina Commedia od a fare poesie in quanto la cosa non avrebbe senso, è una lingua essenziale di concetti che al di fuori dalle elaborazioni lessicali, non indispensabili, vuole fare in modo che finalmente l’umanità tutta possa comprendersi», e poiché non richiede l’intervento di terzi per l’apprendimento consente a tutti di essere autodidatti.

 Ancora negli anni novanta nascono altri progetti di lingua universale di autori italiani, fra questi il Raubser (da raub = universo e ser = lingua), elaborato nell’arco di quasi vent’anni dal varesino Luigi Orabona (1943), insegnante elementare. Fra le altre cose, i vocaboli del Raubser esprimenti concetti opposti o che hanno una certa analogia vengono rappresentati con inversi grafici; così abbiamo: met = amore e tem = odio; doraf = arteria e farod = vena; favet = bianco e tevaf = nero; kabon = testa e nobak = coda. 

 Il Devessiano è una lingua inventata da Mario Pollini di Grosseto intorno al 1971, ma completata solo negli anni novanta. Il nome deriva da Devessia, una repubblica immaginaria situata nell’estremo occidente d’Europa, fra la Spagna e l’Irlandia, e significa letteralmente «il paese delle cose come devono essere». In sintesi, il Devessiano è una lingua ispano-amiatina, in quanto la sua base lessicale, da un lato, riprende molto della parlata della terra d’origine dell’autore, e cioè il monte Amiata, situato in Toscana, e dall’altro guarda al mondo iberico: le preposizioni articolate ad esempio sono prese dal portoghese (do, da, dos, das), il dittongo spagnolo «ue» trasformato in «ui» (puirto, suirte, puinte) e anche il suffisso «-con» che corrisponde a un’errata pronuncia infantile dello spagnolo, e l’altro suffisso «-èira» preso dal portoghese. Il lessico amiatino si ritrova particolarmente nelle parole che indicano la frutta, come bahoha (albicocca), sarac[c con pipetta]a (ciliegia), pornela (susina). 
Oltre che alla parlata amiatina e allo spagnolo e al portoghese, il lessico del Devessiano attinge parole dal francese (pandon = «mentre», da «pendant»), dal genovese (umàa = «onda» deriva dal genovese «u mâ», cioè «il mare»), da linguaggi infantili, da espressioni scherzose, da interpretazioni arbitrarie (manc[c con pipetta]urà = «masticare» deriva da come l’autore sente il suono della parola Manciuria) e anche da parole tratte dai sogni dell’autore (ad esempio baltac[c con pipetta]à = «colpire forte, rovesciare»).
 «Se, come sosteneva un interprete che lavorava nel mio ufficio, “le lingue sono l’anima dei popoli”», scrive Pollini in un dattiloscritto dove sono esposti I lineamenti di grammatica della lingua devessiana (1995), «questa lingua è l’anima di un popolo immaginario che sono io fatto nazione e quindi dovrebbe esprimere intimamente il mio modo di pensare»

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Les Cahiers de l'Institut, rivista dell'Institut International de Recherches et d'Exploration sur les Fous Littéraires, numero 4, 2009, pp. 95-104, traduzione in francese di Tanka G. Tremblay. Per leggere la traduzione di Tremblay cliccate qui.
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