Paolo Albani
Niente da fare. È un limite che ho, non riesco a guardarmi dentro. Non è solo un’incapacità logistica, la mia. Le ho provate tutte, o quasi. Ma non per questo mi arrendo. Sono un tipo testardo. All’inizio, un po’ ingenuamente, ho preso un normale specchio odontoiatrico, uno specchietto rotondo di 22 millimetri di diametro, curvo, collocato in cima a un’asticella lunga 16,5 cm in acciaio inox di alta qualità. È lo specchietto – tanto per capirci – che usano i dentisti per il controllo della cavità orale e dei denti. L’ho comprato su Amazon con pochi euro. Fin qui tutto facile. Mi sono ficcato in gola lo specchietto, poi grazie a un
altro specchio messo davanti alla mia bocca, facendo leva su un gioco di
riflessi, ho cercato di guardarmi dentro,
ma non ho visto niente. Era tutto buio. Bisognerebbe mettere una lucina sul
bordo dello specchietto, allora forse qualcosa potrei vedere, dentro di me. Ma
non andrei in profondità, non oltre la parte iniziale dell’esofago. Ben poca introspezione.
Ho pensato anche di farmi un piccolo forellino con un bisturi (altro strumento facilmente reperibile, a un prezzo economico), una fessura all’altezza del cuore, non proprio sopra il cuore, ma leggermente di lato rispetto al muscolo cardiaco, per guardarmi dentro. Non c’è migliore visuale, prospettiva più interessante per guardarsi dentro che partire dall’osservazione dell’area dove batte il cuore, è un punto nevralgico per comprendere quello che accade dentro. Sono convinto che è in quel punto, vicino al cuore, che si concentrano le tensioni emotive, da lì si può avere un quadro attendibile di ciò che si agita dentro di me, alterazioni e scompensi: è questa la condizione che desidero focalizzare guardando dentro di me. Tuttavia, anche mi procurassi uno spiraglio vicino al cuore, un taglietto propedeutico (un amico chirurgo potrebbe insegnarmi in poco tempo), francamente non saprei come guardarmi dentro. Non basterebbe avvicinare l’obiettivo fotografico dello smartphone all’apertura del mio sterno e scattare una foto, applicando la funzione flash. Non si vedrebbe nulla di quello che c’è dentro di me. Una macchia nera. E nemmeno se ponessi il torace sul vetro di una fotocopiatrice o mi sdraiassi faccia all’ingiù sopra lo scanner. Avrei lo stesso effetto notte. Forse la cosa migliore per guardarmi dentro sarebbe avere a disposizione una di quelle sonde che usano negli ospedali per fare l’endoscopia, un metodo di esplorazione che permette di visualizzare l’interno del corpo. Si chiama endoscopio, è uno strumento dotato di un tubo sulla cui testa è presente una telecamera. A parte il costo esorbitante di un macchinario del genere (dovrei fare un mutuo, dissipare tutti i miei non cospicui risparmi, e nemmeno così arriverei a racimolare la cifra necessaria), il vero problema è che questi apparecchi non hanno un mercato privato, li vendono solo a istituzioni pubbliche, strutture ospedaliere o cliniche private regolarmente convenzionate. Non è che un privato cittadino ha la possibilità di acquistare un endoscopio, come si acquistano un’automobile o un frigorifero da un rivenditore autorizzato, pagando con la carta di credito. Magari uno pensa che basti mettere un annuncio su un giornale: CERCASI ENDOSCOPIO ANCHE USATO, IN BUONE CONDIZONI, FUNZIONANTE. SI ACCETTANO SOLO OFFERTE SERIE e aspettare che il proprietario di un endoscopio si faccia vivo. No, non funziona così. I canali di vendita dei macchinari medici non sono contemplati nel campo privatistico. Inoltre, c’è il problema non indifferente del funzionamento: per gestire un endoscopio devi essere un tecnico specializzato, aver conseguito una laurea triennale in Tecniche di Radiologia Medica per Immagini e Radioterapia (TRMIR) presso la Facoltà universitaria di Medicina e Chirurgia. Figuriamoci se adesso, a questa età, per guardarmi dentro, mi iscrivo alla Facoltà di Medicina. Sarebbe troppo impegnativo (Medicina è una facoltà dura, con un sacco di esami difficili), oltre che ridicolo. Non ho tempo da perdere, in questo periodo. Allora, per guardarmi dentro, potrei andare in ospedale, sottopormi a un esame endoscopico, senza pagare un euro, a spese della sanità pubblica, e tagliare così la testa al toro. Lì mi guarderebbero dentro, non c’è dubbio. Mi farebbero un’indagine accurata del mio spazio corporale interno, proiettando le pareti delle mie budella sul monitor di un computer. Chi ha fatto un’endoscopia o un’ecografia sa di cosa parlo. Credo però di non essere stato chiaro. Il punto è che l’idea di guardarmi dentro significa per me cercare una traccia, sia pure labile, dei turbamenti, paure, miserie che si annidano dentro di me. Intendo questo per guardarmi dentro. Un’ispezione extra corporale, che tuttavia può avere inizio soltanto all’interno del mio corpo. Questo è l’intoppo. I medici, quando fanno un’endoscopia, si limitano a vedere se hai qualcosa di brutto sul piano anatomico: polipi intestinali, tumori, escrescenze di vario genere. C’è una bella differenza, no? In genere controllano se dentro di te ci sono anomalie fisiche, e lo fanno con l’ausilio di macchinari altamente tecnologici, di una precisione millimetrica. Sono dei materialisti, i medici. Non si preoccupano delle sofferenze mentali, psicologiche, che non s’incarnano in un tessuto svigorito, in una cellula impazzita. Per guardarsi dentro – in modo serio, come intendo io – sarebbe utile che l’analisi endoscopica, o quel che è, fosse eseguita da un medico con una sensibilità che vada oltre le mere conoscenze professionali, che non fosse soltanto un tecnico, un grigio specialista. Qui sono in ballo i sentimenti. Ci vorrebbe un medico che sappia trattare i problemi dell’«anima», in modo scrupoloso, ma non mi riferisco a uno psicanalista, se è a questo che state pensando. Sulla psicanalisi la penso esattamente come Karl Kraus: la psicanalisi è quella malattia mentale di cui ritiene di essere la terapia (Karl Kraus, Detti e contraddetti, a cura di Roberto Calasso, Adelphi, Milano 1972, p. 300). Allora, per non tirarla troppo in lungo, esistono medici capaci di un’osservazione approfondita, oltre il piano fisiologico, dell’interiorità umana? Forse sì. Volete un nome? Ne ho uno che è una garanzia: ANTON PAVLOVIČ ČECHOV. Da lui, statene certi, mi lascerei guardare dentro fiducioso.
marzo 2022
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