Paolo Albani
IL GROTRIANDESE





 Fra i precursori dell'antropologia culturale, la cui fondazione come scienza autonoma si fa generalmente risalire al 1871, anno in cui uscirono i lavori pionieristici di L.H. Morgan e E.B. Tylor, non sempre viene ricordato il nome del polacco Stefan Norwid, un esploratore audace, tedesco per parte di madre, un uomo dal fisico asciutto, alto non più di un metro e quarantadue centimetri, che pure ostentava, nonostante la statura poco lusinghiera (lo testimonia un suo ritratto custodito nel palazzo del Belvedere di Varsavia), uno sguardo altezzoso e un ghigno oltremodo insolente sforbiciato in mezzo al cespuglio ispido della barba rossiccia. 
 All'inizio del secolo XIX Norwid (che poco prima di morire ebbe modo di conoscere Malinowski e d'intrattenere con lui un breve, ma intenso rapporto epistolare) scrisse un documento quanto mai interessante: un diario sugli usi e costumi degli abitanti delle Grotriand, una serie di isole coralline situate nell'oceano Pacifico, in un lembo sperduto di mare fra le Filippine e la Nuova Guinea.
 L'esploratore polacco fu uno dei primi a entrare in contatto con i Grotriandesi, una popolazione negroide, organizzata in clan esogamici (il coniuge viene scelto al di fuori del proprio gruppo di parentela o socioeconomico) matrilineari e, come tutte le popolazioni isolane che vivono in quell'area del Pacifico, dedita principalmente all'agricoltura (tuberi), all'allevamento (maiali, usati anche per sacrifici rituali) e alla pesca (soprattutto quella perlifera); un'altra attività praticata dai Grotriandesi è la caccia agli uccelli le cui piume sono impiegate per decorazioni personali e in vere e proprie produzioni artistiche.
 Con la sua spedizione, di cui facevano parte cinque membri (un medico naturalista, tre mozzi e un cuoco), Norwid sbarcò a Pukal, la più appartata e minuscola delle isole Grotriand, il 21 giugno del 1823 e vi soggiornò per circa quattordici mesi, accampato ai margini del villaggio di una tribù che lo accolse amichevolmente. Gli indigeni di Pukal, che non avevano mai visto un bianco, dettero a Norwid il nomignolo di ghai kol, cioè «figlio della brace incandescente», per via del colore rossiccio della sua folta capigliatura.

 
 Gran parte del diario di Norwid è dedicata a una minuziosa descrizione del linguaggio dei Grotriandesi che, analogamente alle parlate degli indiani d'America e dei Papua, si basa su «un sistema di articolazioni spericolate, nasalizzazioni, stiramento di muscoli, toni rauchi, suoni apicali, sillabe strascicate e note in falsetto alte soprattutto nella seconda o terza sillaba».
 Una delle caratteristiche più significative del linguaggio grotriandese, osserva Norwid, è la sua estrema ambiguità, la sua polisemia. Poiché uno stesso termine in grotriandese ha molti significati - ad esempio fratiak può significare «stupido», «sagace», «mezzacalzetta», «stuzzicante», «chiacchierone», «perdigiorno», «irresistibile», «porco», «rubacuori», «pianta grane», «ladro di serpenti», «pancia che gorgoglia», ecc. - i Grotriandesi hanno una forte predisposizione verso i giochi con le parole, atteggiamento che si traduce in una smisurata, assidua creazione di indovinelli, filastrocche, canti con doppi sensi, alcuni dei quali a sfondo erotico. 
 C'è un canto molto noto nell'isola di Pukal, un canto gestuale accompagnato da movimenti ritmici e grida improvvise, dedicato a Mitrasil, dio della fecondazione. In grotriandese il termine mitrasil significa letteralmente «Prendimi con dolcezza e fammi tua», ma cambia completamente di significato qualora sia rivolto, in un contesto di vita quotidiana, a un consanguineo di sesso femminile; in quest'ultimo frangente, mitrasil indica una richiesta ben precisa, ovvero: «Prendimi la noce di cocco che sta ai piedi dell'albero».
 La stessa espressione - «Padi ting gud foh» - viene usata dai Grotriandesi in circostanze diametralmente opposte: da un lato essa significa «Ah, finalmente, eccoti qua!», nel momento in cui due individui s'incontrano in uno spazio aperto o dentro una capanna; dall'altro il valore semantico di «Padi ting gud foh» si trasforma in: «Ciao, devo scappare, ci vediamo presto», quando due individui si congedano, al termine di una conversazione svoltasi in prossimità del mare, accompagnata dal fruscio melodico delle onde. 
 Per dare risposte affermative i Grotriandesi sono soliti chiudere gli occhi e sospirare, scandendo lentamente la parola lufigiac che, esibita in questo modo, equivale a un netto «sì», «d'accordo», «va bene»; per le negazioni, invece, i Grotriandesi si comportano altrimenti: restano con gli occhi aperti, guardando dritto in faccia il loro interlocutore, e esclamano, rapidi e decisi, lufigiac, così da evitare ogni fraintendimento.
 Una delle imprecazioni più diffuse fra i Grotriandesi è «Pegh roa niat serli» che, pronunciata puntando il dito indice verso qualcuno, significa all'incirca «Che il cielo possa abbassarsi fino a schiacciarti la punta del naso». La stessa frase, detta allargandosi in un sorriso che lasci ben scoperta la dentatura frontale, bianchissima, e ponendo le mani sui fianchi, assume un altro significato, e cioè «Che Lugim possa trasportarti in cielo e cullarti fra le sue braccia di nuvole», dove Lugim è il dio grotriandese del vento, uno dio buono che aiuta le persone a sollevarsi, sia fisicamente che mentalmente.
 «Ben presto ho scoperto a mie spese», annota Norwid nel suo diario il 3 settembre 1823, «che bisogna fare attenzione a rivolgersi a un Grotriandese con la frase "Nuga rid blanfesa". Infatti, prima che il sole sia tramontato dietro il profilo delle montagne sempreverdi o del cono minaccioso dell'unico vulcano dell'isola o ancora, a seconda della visuale dell'osservatore, dietro la linea dell'orizzonte che unisce il cielo e il mare in un abbraccio struggente, la frase significa "Ti sei alzato bene, oggi?"; al contrario, dopo il tramonto, la stessa locuzione "Nuga rid blanfesa" si veste di un contenuto apertamente ostile, poco affettuoso, e cioè: "Che fai ancora qui. Vattene a dormire, fannullone!"»
 «Un giorno», scrive Norwid il 7 aprile 1824, «me ne stavo seduto sopra una pietra, da solo, immerso non ricordo più in quali pensieri, all'ombra di un banano per mitigare i vapori del grande caldo, quando d'un tratto un piccolo grotriandese, seminudo, mi passò accanto di corsa e mi urlò: "Karilù, ghai kol". Più tardi chiesi a un anziano il significato della parola "karilù" che non avevo mai sentito. Per tutta risposta, questi mi chiese se il bambino portava una piuma in testa, perché, se per caso non la portava, si era semplicemente limitato ad augurarmi: "Buona giornata, figlio della brace incandescente!"; se invece aveva una piuma infilata fra i capelli, stretta da un laccio sottile, allora: "La parola karilù", mi disse il vecchio ridacchiando sotto una lunga barba bianca cui erano appese delle conchiglie a forma di spirale, "non si può ripetere, da quanto è sconcia"».
 Prima di entrare in una capanna grotriandese è buona regola fermarsi sulla soglia della porta, battersi il petto due volte con la mano destra in segno di amicizia e chiedere a voce alta: «Puca lo?» (È permesso?). A questo punto, dall'interno della capanna, vi risponderanno «Tet mua fri» (Avanti, prego) oppure «Tet mua fri» (Ripassate più tardi, siamo occupati), a seconda che «Tet mua fri» sia seguito o meno da una leggera eruttazione.
 Lo stregone della tribù dell'isola di Pukal, quando deve guarire qualcuno dall'influsso negativo degli spiriti, si cosparge il volto con una specie di cipria biancastra e indossa un gonnellino di piume di cacatua, che gli nasconde appena un minuscolo perizoma; poi comincia a recitare questa formula: «Abo hughi romta bu lapinaciò», danzando freneticamente intorno al poveretto, al suono ossessivo di un tamburo, roteando in alto una lancia da cui pendono dei nastrini colorati. Il rito si protrae a volte per una giornata intera, fino a quando entrambi, lo stregone e il posseduto dallo spirito maligno, non cadono a terra sfiniti e vengono portati a braccia nelle rispettive capanne.
 A proposito dello stregone della tribù dell'isola di Pukal, Norwid racconta questo episodio. Un giorno, al ritorno di un'esplorazione dentro una grotta situata ai piedi del vulcano, Norwid passò vicino alla capanna dello stregone e lo sorprese mentre ripeteva la formula magica: «Abo hughi romta bu lapinaciò». Era l'ora di pranzo e, in un'enorme scodella di legno, lo stregone si stava preparando il sepikab, un piatto tipico grotriandese costituito da un intruglio di erbe aromatiche tagliuzzate fini e mescolate con una bevanda liquorosa.
 Le capanne del villaggio dove vive la tribù dell'isola di Pukal sono disposte in modo da formare una figura ovale, e questo non a caso perché l'uovo è il simbolo grotriandese della prosperità. Ai bordi del villaggio, sparsi qua e là, ci sono dei magazzini eretti su palafitte. Nei punti estremi dell'ovale, s'innalzano poi due pali di circa tre metri, intagliati magistralmente, identici in tutto e per tutto fra loro. Entrambi raffigurano la testa di un serpente con la lingua biforcuta; al posto degli occhi, il serpente ha due gusci di cocco spaccati a metà, dipinti di nero; dalla testa si allunga un corpo squamoso munito di larghe ali, simili a quella di un'aquila. Il palo posto a nord del villaggio è consacrato al dio della pazienza, «Perisol», che è anche il protettore, lo spirito custode della tribù; nel palo situato a sud, invece, i Grotriandesi venerano un altro dio, «Perisol», che impersona l'inarrestabile energia della natura, un dio suscettibile, capriccioso, che quando si arrabbia, per il minimo disappunto, rovescia sull'isola terribili uragani e a cui, per placarne l'ira, a ogni cambio di luna, i Grotriandesi offrono in sacrificio una scrofa vergine, il cui sangue viene cosparso sulla bocca del serpente.
 La morale dei Grotriandesi, se così possiamo esprimerci, s'ispira a un princìpio elementare, che possiede la forza travolgente e persuasiva di un aforisma zen: per un Grotriandese è «bene» («otalim») tutto ciò che si accorda in modo armonioso al colore inconfondibile delle perle; è «male» («otalim») tutto il resto.

gennaio 2005



Una versione ridotta di questo racconto è uscita su il Caffè illustrato, 24, maggio-giugno 2005, p. 12.
Per andare al sommario de il Caffè illustrato cliccate qui.

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Il racconto è uscito anche in
La governante di Jevons. Storie di precursori
dimenticati
, Campanotto 2007.

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Sul linguaggio dei Grotriandesi ho fatto un intervento al Festival Le parole, i giorni, a cura di Maria Perosino e Stefano Bartezzaghi, nella Sala minore del Teatro Politeama di Poggibonsi (Siena) il 16 aprile 2010.





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