L'ISOLA DI LOTOFAGI E DINTORNI APPUNTI DI GEOGRAFIA FANTASTICA(*)
In un punto imprecisato del Mediterraneo si trova l’isola dei Lotofagi,
un lembo di terra assai temuto dai naviganti perché coloro che
vi sbarcano vengono indotti (sedotti), senza malizia, dagli abitanti a
cibarsi del frutto dolcissimo del loto, il cui effetto è un
altrettanto dolce oblio, che farà scordare loro il ritorno e ogni
affetto, costringendoli a rimanere per sempre sull’isola, a meno che
non siano portati via con la forza.
L’isola dei Lotofagi è uno dei luoghi immaginari - insieme alla Terra dei Ciclopi, al paese dei Lestrigoni e dei Cimmeri, alle isole di Ogigia, di Eolia, delle Sirene e della maga Circe - che s’incontrano nell’Odissea di Omero (sec. VIII [?] a.C.), a testimonianza di quanto remota sia, specie in ambito letterario, l’arte d’inventare terre inesistenti. È soprattutto nel Seicento e nel Settecento, secolo quest’ultimo ritenuto l’età dell’oro dell’utopia, che si diffonde con grande successo la moda dei resoconti di viaggi in terre immaginarie, in terre “de nulle part”, di Eldoradi sperduti, di isole misteriose, successo decretato, per altro, dalla fortuna editoriale incontrata dai trentanove volumi dei Voyages imaginaires, songes, visions et romans cabalistiques (1787-1789) pubblicati da Charles Garnier. Uno degli aspetti più interessanti della letteratura dei viaggi fantastici, in particolare di quella attiva nel periodo che va all’incirca dalla prima metà del Seicento alla fine del Settecento, è lo zelo con cui gli scrittori di romanzi d’avventura si prodigano in descrizioni particolareggiate, minuziose dei mondi sconosciuti cui approdano i vari Gulliver o Victorin; le narrazioni, maturate a volte con intenti parodistici (vedi Swift), evidenziano la struttura della società dei paesi visitati sotto varie angolature, esaminandone i confini spaziali e la morfologia del territorio (notevole per bellezza estetica è il campo della cartografia immaginaria, dalla mappa delle terre del prete Gianni fino alle zoogeografie di Claudio Parmiggiani), l’organizzazione sociale e politica, la religione, il sapere scientifico, gli usi e i costumi, la finanza, l’architettura e l’urbanistica, le biblioteche (vastissimo è il fondo degli pseudobiblia, come pure affascinanti sono i cataloghi delle biblioteche nate sul modello di quella rabelaisiana dell’Abbazia di San Vittore) e perfino la lingua parlata di cui si arriva in certi casi a riprodurre la grammatica con paradigmi, vocabolario e coniugazioni. In alcuni fra i romanzi più noti dell’epoca, che per altro hanno dato vita a stimolanti ricerche di linguistica fantastica, come Les aventures de Jacques Sadeur dans la découverte et le voyage de la Terre australe (1676) di Gabriel de Foigny, l’Histoire des Sévarambes (1677-1679) di Denis Vairasse (o Veiras) o ancora Les Voyages et avantures de Jacques Massé (1710) di Simon Tyssot de Patot, le analisi e le accurate osservazioni sulle lingue in uso nei paesi esplorati sono così approfondite, circostanziate e ricche di esempi da renderle quanto mai verosimili. Il più delle volte l’invenzione di un mondo immaginario mette capo alla creazione di una branca fantastica del sapere: si pensi, tanto per dare solo pochi riferimenti, alla botanica parallela di Leo Lionni, inventario di una natura esistente nelle terre “al di là dello specchio”, o ai Rinogradi di Harald Stümpke (Gerolf Steiner), mammiferi nasuti che popolano l’arcipelago di Aiaiai nel Pacifico meridionale, o alla Coscinoscera punctata e alla Coscinoscera nigrostriata, grandi Ornitotteri attestati unicamente sull’isola di Iputupi, studiati da Georges Perec. Animali fantastici con nomi bizzarri - Uro, Parpua, Darletta, Epigrú, Cartiva, Megia, Emeo, Curtipliana, Ipedruchi, Burasse, Peffili, Daraghe, Purpiassi, Babluiti, Carciti, Giammette - si trovano anche negli “Appunti di zoologia” che Henri Michaux incluse nel suo libro Mes propriétés (1929). Sotto questo profilo, la Zoologia fantastica è forse il settore dell’“immaginario scientifico” più frequentato in letteratura, su cui esiste una gran mole di repertori, di antologie curiose, di numeri monografici di riviste e di manuali come quello, redatto nel 1957 da Borges in collaborazione con Margarita Guerrero, diventato dieci anni dopo El libro de los seres imaginarios. Quando delinea i tratti salienti di un paese inesplorato e sconosciuto, accade non di rado allo scrittore di storie ambientate in “nuovi mondi” di vestire i panni del precursore, di prefigurare cioè invenzioni, scoperte che si realizzeranno in un futuro lontanissimo (la fantascienza, diceva Manganelli, “è mossa da angosciosi impulsi profetici”). Facciamo un piccolo esempio. Ne L’Autre Monde ou les États et Empires de la Lune (1657), Cyrano de Bergerac racconta che gli abitanti della Luna parlano un linguaggio musicale; di conseguenza i loro libri non possono che avere la forma di oggetti “sonori”. La descrizione che Cyrano de Bergerac offre dei libri scritti in lingua lunare sembra perfettamente ritagliata per illustrare il funzionamento del futuro grammofono: All’apertura della scatola, trovai dentro un non so che di metallico quasi in tutto simile ai nostri orologi, pieno di un numero infinito di piccole molle e congegni impercettibili. Effettivamente è un libro, ma un libro prodigioso che non ha né fogli né caratteri. Insomma è un libro dove, per leggere, gli occhi non servono, ma si ha bisogno solo degli orecchi. Quando qualcuno dunque desidera leggere, carica, con una gran quantità di ogni specie di chiavi, quella macchina, poi volge l’ago sul capitolo che desidera ascoltare, e subito escono da quel congegno come dalla bocca di un uomo, o da uno strumento musicale, tutti suoni distinti e differenti che servono, tra i notabili della Luna, all’espressione del linguaggio. L’invenzione del grammofono, dovuta a Emile Berliner (1851-1929), impiegato della Bell Telephone Company, fu brevettata nel 1887. Allargando lo sguardo sull’esteso campionario di mondi immaginari, così da includere, a fianco delle rappresentazioni che muovono dal romanzo sei-settecentesco di stampo prevalentemente utopico, quelle costruite dalla fantascienza, si può ben constatare che esiste una vera e propria Geografia fantastica, scienza che studia ogni sorta di “altri mondi” o “luoghi immaginari” la cui tipologia, seguendo le indicazioni contenute ne La scienza della fantascienza (1991) di Renato Giovannoli, può essere sommariamente riassunta così: 1) mondi perduti (paesi al centro della Terra, antiche civiltà sopravvissute nelle profondità di giungle o di oceani inesplorati, ecc.); 2) mondi di epoche antiche, o future, o imprecisate (medioevi barbarici, continenti scomparsi, ecc.); 3) mondi del sogno, talvolta visitati da più sognatori; 4) utopie geometriche alla Flatland; 5) pianeti sempre più lontani, esotici, alieni; 6) mondi subatomici, ovvero atomi concepiti come minuscoli sistemi solari, con pianeti magari abitati. Un altro proficuo tentativo di classificazione, avanzato da Omar Calabrese in un intervento apparso sul catalogo della mostra Hic sunt leones. Estetica dei non luoghi (2006) tenutasi alle Acciaierie Arte contemporanea di Cortenuova (Bergamo), individua cinque possibili categorie della Geografia fantastica. La prima, la geografia d’invenzione, “consiste nel delineare un paese che non c’è, in modo da ambientarvi avventure straordinarie, con il medesimo sentimento di scoperta che probabilmente ebbero gli esploratori di nuovi mondi, e però con la liberazione più totale della fantasia”. In una seconda categoria, la geografia utopica (in questo caso la terminologia è nostra), l’invenzione di territori inesistenti ha lo scopo, come nell’Utopia (1516) di Tommaso Moro, di offrire assetti sociali da prendere a modello. Una terza categoria, la geografia congetturale, include luoghi certamente immaginari - Atlantide, il Paradiso Terrestre, il regno del prete Gianni, ecc. - ma creduti in qualche maniera e in varia misura “veri”. Un’ulteriore categoria è quella della geografia concettuale, così chiamata perché qui “l’aspetto cartografico serve soprattutto come grande metafora o come criterio di organizzazione dei sistemi di relazione fra concetti astratti”: nel romanzo La Clélie (1654-60) della scrittrice francese Madeleine de Scudéry, imperniato sulla storia di Clelia, fanciulla romana data in ostaggio al re Porsenna, del cui figlio, Arunte, diviene l’amante, è riprodotta una carta che mostra in chiave topografica il sistema semantico dell’amore: sulla “Carta del Tenero” (Carte du tendre), partendo dalla città di Amicizia Nuova, si arriva a tre città, ciascuna su un fiume: Tenero su Stima, Tenero su Riconoscenza e Tenero su Inclinazione; alla prima si giunge attraversando i villaggi di Versi Graziosi, Lettera Galante, Generosità, ecc. badando di evitare Negligenza, Leggerezza, Oblio, ecc. che porterebbero dritti al Lago d’indifferenza. C’è infine la geografia giocata, cioè costruita per giocare, come nel Gioco dell’Oca, nei Monopoli o in tanti giochi di ruolo basati su “percorsi inframmezzati da tappe nelle quali si ergono difficoltà da superare attraverso prove e mosse del giocatore”. Il gioco può consistere anche nel paradosso e nello scherzo: a questo riguardo, afferma Calabrese, l’esempio più bello è probabilmente quello rappresentato da Lewis Carroll in The Hunting of the Snark (1876): poiché lo Snark (tradotto da Milli Graffi in Snualo) è un animale immaginario e sfuggente che poi risulta essere un Boojum, altro animale immaginario, l’unica mappa possibile dell’oceano in cui avviene la sua caccia è assolutamente bianca [si veda l'immagine qui a fianco tratta dalla rivista Sfera, 14, giugno-luglio 1990, pp. 56-57, e contenuta anche in Lewis Carroll, La caccia allo snualo, trad. di Milli Graffi, Ed. Studio Tesi, Pordenone, 1985, p. 56]. Ancora oggi un valido strumento di consultazione per avvicinarsi alla Geografia fantastica è costituito dal Manuale dei luoghi fantastici (1980, ristampato da Rizzoli nel 1996) di Gianni Guadalupi e Alberto Manguel. “È un volumone - scrive Calvino in una recensione uscita su la Repubblica del 1981 - che si presenta come un dizionario geografico, con voci in ordine alfabetico (da Abaton, città di collocazione variabile, a Zuy, centro commerciale degli Elfi), corredato da cartine e da incisioni che imitano quelle d’una vecchia enciclopedia... [...] Nella Biblioteca del Superfluo, che vorrei trovasse sempre posto nei nostri scaffali, mi sembra - aggiunge Calvino - che un ‘Dizionario dei luoghi immaginari’ sia un’opera di consultazione indispensabile.” Nello stesso anno, sempre su la Repubblica, Calvino recensisce un libro dedicato all’opera di Donald Evans, un artista del New Jersey che negli anni Settanta non fa che dipingere francobolli, circa 4000, distribuiti in 42 paesi immaginari, francobolli disegnati con matite o inchiostri colorati e dipinti a acquerello, “scrupolosamente fedeli a tutto ciò che ci si aspetta da un francobollo, al punto di sembrare, a una prima occhiata, veri”. Dopo essersi inventato il nome di un paese, il nome di una moneta, un repertorio di immagini caratteristiche, Evans comincia “a riempire minuziosamente dei piccoli quadrati o rettangoli (qualche volta triangoli) incorniciati da un bordo bianco dentellato, a serie completa, ogni serie col suo anno d’emissione e lo stile dell’epoca, ogni valore col suo colorino tenue, scelto nella gamma di tinte abituali delle affrancature postali.” Ma l’operazione artistica non si esaurisce qui: Evans annulla i francobolli con un timbro circolare da lui stesso ideato e alle volte la composizione comprende “anche la busta tutta timbrata e stampigliata, con l’indirizzo scritto a mano in una grafia inventata, nomi di persone e di luoghi inventati ma sempre quasi verosimili”. Abbiamo così tracciato a grandi linee la poliedrica varietà di spunti e di temi (linguistici, religiosi, bibliografici, morali, cartografici, scientifici, architettonici, artistici e di altro tipo ancora) che l’invenzione geografica suscita e mette in gioco. Ma come si fa a inventare un luogo fantastico? È sufficiente una parola inconsueta, misteriosa, sconosciuta ai lessici convenzionali, per aprire il rubinetto della nostra fantasia, magari una parola trovata per caso, come quella che Charles Dickens, in una cupa giornata londinese, scorge d’improvviso riflessa sulla porta a vetri di un caffè: “MOOREEFFOC”. All’apparizione di quella parola dal suono bizzarro, inatteso, Dickens, come lui stesso racconta, si estranea dalla realtà e comincia a fantasticare, immaginandosi chissà un’ipotetica terra di MOOREEFFOC, calda, verdeggiante e piena di frutti esotici, lasciandosi così alle spalle l’uggia nebbiosa dell’inverno inglese. Solo in un secondo tempo, Dickens realizza che “MOOREEFFOC” non è altro che l’insegna “COFFEEROOM”, “CAFFÈ”, letta al contrario. (*) Nel 2006 Piermario Ciani (1951-2006), artista visivo, mail-artista, fotografo, graphic
designer, editore, agitatore invisibile, precursore e poi colonna portante del
Luther Blissett Project, mi chiese di
scrivere l’introduzione a un libro cui stava lavorando dedicato al progetto
F.U.N. (Funtastic United Nations), libro che non è mai stato pubblicato.
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