La più povera casa editrice del mondo a cura di Afro Somenzari Terzo volume antologico Introduzione di Andrea Cortellessa Tavole di Ugo Nespolo Viadana 2014 Scritti di: Paolo Colagrande, Camillo Cuneo, Miklos N. Varga, Francesca Bonafini, Mario Aldovini, Diego Rosa, Roberto Barbolini, Paolo Albani, Carlo Battisti, Renzo Butazzi, Hans Tuzzi, Gianfranco Mammi, Daniela Marcheschi, Virginia Boldrini, Aldo Gianolio, Simonetta Gilioli, Antonio Castronuovo, Don Backy, Alfredo Gianolio, Valerio Magrelli, Andrea Soncini. ________________________________ INTRODUZIONE Nella sua guida minima (ma, a dispetto delle apparenze, quanto mai attendibile) alla Repubblica delle Lettere, Antonio Castronuovo si dice convinto che «esiste una letteratura che vive di altrimenti e tutto il resto, forse, è calligrafia da scalzacani». È raro che gli autori di FUOCOfuochino lo dicano, in modo così esplicito; ma in realtà tutti loro incarnano con precisione l'altrimenti dal quale puntuale ci fa raggiungere Afro Somenzari con le sue edizioni, le più povere del mondo. Un po' come l'«ortolano della letteratura» Alfredo Gianolio, ce lo si immagina battere i sentieri meno frequentati, Somenzarì (o «L'Editore», come da un certo momento in avanti ha preso a firmarsi, con impersonalità 'patafilologica da antico erudito), a raccogliere fiori di carta che poi ci offre con infallibile discrezione; e liberalità tanto semplice quanto preziosa. Per infine comporli in almagesti dal fasto rustico e ricercato: così accostando, con mancanza di pregiudizi che si può solo invidiare, il poeta di fama internazionale all'aedo vagabondo in cui s'imbatte sotto casa, il giallista mascherato all'urlatore sgangherato che un dì fu celebre. Come il più incondito dei suoi autori, l'amico Afro «trova la vita in tutto ciò che gli altri gettano via e che raccoglie per costruire»: e la trova sempre, come nel gioco d'infanzia dal quale ha preso il nome, andandola a cercare là dove s'era nascosta. Fiori.
Vengono alla mente quelli, mostruosi e seducenti, cui con ironia sottile
indulgeva Guido Scarabottolo illustrando lo scorso Catalogo; ma è a quelli memorabili
di Palazzeschi che fa pensare, invece, l’allegoria micidiale di Paolo Albani
(di Somenzari il complice più occhiuto: non è un caso che a Castronuovo siano
proprio i suoi scritti a dettare il convincimento di cui sopra). Come il poeta d’animo
puro del carissimo Aldo, che una certa notte scopre nel mondo in apparenza più
innocente – quello dei fiori, appunto – le identiche perversioni che lo hanno
allontanato dal volgare consorzio degli umani («– Che meraviglia! / Lesbica è
la vaniglia. / E il narciso, quello specchio di candore, / si masturba quando è
in petto alle signore […] / E la violaciocca, / fa certi lavoretti con la bocca…»),
così è con solo apparente impassibilità che Albani (variante ‘patascientifica o
‘pataclinica di Somenzari) denuncia il «bibliofilo sporcaccione» che se la
«spassa a letto con due plaquette francesi» (e, si mormora, «per le plaquette
ancora intonse poi era disposto a tutto»). Vista dal suo buco, si scopre che «dietro la sua facciata di comodo» la
letteratura – proprio come la flora di Palazzeschi – nasconde «qualcosa di
anormale, di vizioso». E non c’è reazione più comprensibile, allora, di quella del
carissimo Aldo: che esasperato invoca, infine, «un nascondiglio / fuori della
natura». Un nascondiglio fuori della letteratura è
il territorio fantastico, l’Entroterra fatato che esplora FUOCOfuochino. L’altro versante, il lato in
ombra, il buco appunto della
«letteratura» intesa in senso “pieno”. Piena, si capisce, di bestsellerismo e
mondanità, futili fasti accademici, buone maniere stucchevoli che dissimulano
sgarri non mene che gangsteristici. La letteratura da «defurbizzare», insomma, contro
la quale protesta da sempre, ricordando zio Zavattini, il nume tutelare Gianni
Celati. Quella che occupa arrogante tutti gli spazi, che si autoincorona e si
autoalimenta di continuo, sempre più tronfia e sempre più irrilevante («Ma come
– / come dicono di vivere – / come dicono di vivere qui cosi?», scriveva appunto
Celati nel primo Catalogo viadanese). È rispetto a tutto questo che, nella loro
esibita povertà, i piccoli ardori di
FUOCOfuochino si sottraggono. Disertano,
incrociano le braccia: come quel famoso scrivano di Melville. E rappresentano,
allora, davvero un buco, un «retro»
(simile a quello di una certa poesia famigerata di Corrado Costa) o, proprio,
un altrimenti: l’«eleganza del
bastian contrario» che l’Editore pregia nei nuovi detti del Piovano Arlotto
raccolti da Aldo Gianolio. A chi con querulo puntiglio voglia sapere
«altrimenti» rispetto a cosa, il ««contrario» di che esattamente, basterà
leggere gli «epigrammi letteroidi» di Castronuovo per farsi un’idea precisa,
nomi e cognomi, di quella «calligrafia» tanto celebrata che però, una volta la
si sia letta davvero, può «fare soltanto l’effetto dei fagioli». Più
corretta la domanda su come si possa fare,
a sottrarsi. Dove si trova con precisione questo nascondiglio, questo buco?
O, per riprendere la domanda leopardiana che si fa Gino Ruozzi presentando
certi versi neo-lucreziani di Valerio Magrelli, «il nostro mondo non è questo.
Ma qual è?». La risposta la dà – con la saggezza segreta che sempre si nasconde
al fondo del non-senso – uno dei «limericchi» di Virgina Boldrini: quello che
evoca quella «vecchia signora di Tolosa», che «regalava le sue cose facilmente,
/ tanto restava ricca, nel cuore e nella mente». Dissimulato dal tono dimesso e
dall’ostentata marginalità, è un preciso progetto politico a soffiare il fuoco
di Viadana: l’energia, insospettabile ma a ben vedere non meno che
rivoluzionaria, del dono nel mondo dell’utile.
Parafrasando l’ineffabile Mario Aldovini, verrebbe da dire: il sonno dell’utile
genera i nostri. In
misura minore di lui, ma con spirito dal suo non diverso, donano il loro tempo
e il loro spirito, infatti, gli autori gli illustratori gli stampatori i
collaboratori di Somenzari: scoprendo con un sorriso qualcosa che in cuor loro,
confusamente, sanno da sempre. La letteratura “piena”, quella con cui pensa di
rimpinzarsi il mondo dei “furbi”, è della stessa natura di quelle che Dante,
nel XV del Purgatorio, chiama «cose
terrene»: beni materiali, cioè, che – divisi fra più beneficiari – fatalmente
diminuiscono. Si chiede Dante, allora, «com’esser puote ch’un ben, distributo /
in più posseditor, faccia più ricchi / di sé che se da pochi è posseduto?». E
Virgilio allora gli spiega che, in contrapposizione ai beni materiali e quantificabili,
esiste un’altra e tutta diversa forma di “bene”: quello «infinito e ineffabil
bene» che «corre ad amore / com’a lucido corpo raggio vene». Di questa natura,
è l’altrimenti-letteratura: quella che, luminosa, molto semplicemente si dona.
L’«inesprimibile nulla» di Ungaretti, «tra un fiore colto e l’altro donato». Un
nulla, un buco. Ma pieno d’amore.
Andrea Cortellessa
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