Paolo Albani
L'EREDITÀ



 Tutte le sere, di ritorno dal lavoro dopo una giornata stressante, Gerolamo Di Gerolami entrava in cucina e si toglieva le scarpe che gli facevano un male terribile, specie ai calcagni dove ogni tanto gli si formavano delle vesciche fastidiossissime; poi si sprofondava su una vecchia poltrona con un bracciolo rovinato (la poltrona del nonno paterno Aristide che nessuno, trattandosi di un cimelio, s'era mai azzardato a riparare) e pronunciava, tutte le sere che Dio comanda su questa terra, la stessa frase:
 - Ah, poveri vecchi! - strascicando un po' la «ah» interiettiva che si trasformava in una svenevole e piagnucolosa «aaaaaaaah», sibilante da una parete all'altra della cucina.
 Sollevandosi dalle labbra di Gerolamo Di Gerolami, quella frase non aveva l'aria di un'imprecazione contro qualche preciso acciacco o insofferenza dell'età; era piuttosto una battuta, una specie di intercalare, un riflesso involontario a conclusione delle fatiche giornaliere. Un'abitudine consolidata che forse gli veniva da lontano, un'eredità del nonno Aristide, anch'esso sempre pronto, almeno in tarda età, quando si lamentava (e la cosa gli capitava spesso dato il suo carattere inquieto), a sfoderare l'irritante espressione: «Ah, poveri vecchi!»
 La moglie di Gerolamo Di Gerolami, che in genere tutte le sere assisteva a quella scena penosa, perché all'ora in cui l'uomo rincasava, quasi sempre verso le nove, lei era lì in cucina a preparare la cena, non appena udiva quel gridolino di sofferenza: «Ah, poveri vecchi!», guardava il marito di sottecchi scuotendo la testa in segno di commiserazione.
 E tutti i torti, la moglie, non ce li aveva. Poiché Gerolamo Di Gerolami che, ogni volta a fine giornata, si esibiva in quella monotona esternazione: «Ah, poveri vecchi!», assillante come un rabbino che legge il libro dei salmi, aveva da poco compiuto quarantacinque anni, quindi di certo non si poteva dire vecchio, né ugualmente poteva considerarsi povero, dato che era il titolare di un'azienda di medie dimensioni (fondata dal nonno Aristide) ben avviata nel settore dell'abbigliamento, i cui profitti gli garantivano una vita senza preoccupazioni economiche, da benestante.
 Quindi, se tutte le sere, rientrando dal lavoro, Gerolamo Di Gerolami si lasciava prendere da quel lamentoso fraseggio: «Ah, poveri vecchi!», non lo faceva perché era veramente vecchio, né tanto meno perché era povero, ma solo perché gli veniva spontaneo di dire così, quasi senza accorgersene, meccanicamente, alla stessa maniera in cui un fumatore si mette una sigaretta in bocca. Al di là del senso specifico, letterale della frase, quello era un po' il suo modo di salutare, di avvertire la moglie che era rientrato a casa. 
 Avrebbe potuto dire: «Ciao cara, ci sono novità?» oppure semplicemente «Novità?», e sarebbe stata la stessa cosa, lo stesso modo di entrare in scena, di farsi notare. Ma invece no, tutte le sere lui compariva, stanco, in cucina e sedendosi sulla vecchia poltrona ripeteva con la stessa tonalità di voce: «Ah, poveri vecchi!», prolungando tristemente la «ah».
 Il fatto che ripetesse di continuo «Ah, poveri vecchi!» senza essere né vecchio né povero, e in modo inconsapevole, come talvolta accade ai bambini quando recitano a pappagallo i versi di una poesia di cui ignorano il contenuto, non significa tuttavia che, nel profondo del suo cuore, Gerolamo Di Gerolami non si sentisse davvero come diceva, cioè vecchio, nel senso di antiquato e anche un tantino miserevole. Ovvero non provasse, con una percezione appena decifrabile, un sentimento di inadeguatezza, di malessere, di spaesamento (che la frase «Ah, poveri vecchi!», a saperla leggere bene, forse evidenziava) di fronte alle peripezie del tempo presente che si muove a una velocità rovinosa, che esalta darwinianamente i virtuosi che si gettano nella mischia affilando le coriacee doti di cinismo, spregiudicatezza e sopraffazione: tutte forme di un cannibalismo esistenziale della contemporaneità che a Gerolamo Di Gerolami difettavano.
 Senza voler fare dello psicologismo a buon mercato, dietro quella frase: «Ah, poveri vecchi!», ripetuta ossessivamente ogni sera nel momento in cui si liberava delle scarpe che gli facevano male, forse si nascondevano la frustrazione, l'insoddisfazione accumulate da Gerolamo Di Gerolami in anni di generosa, ma non proprio esaltante attività imprenditoriale.
 Non esaltante perché, Gerolamo Di Gerolami, l'azienda se l'era trovata già bella in salute, competitiva sul mercato, senza muovere un dito. Un'eredità del padre Francesco, una figura di imprenditore dinamico, schumpeteriano, un ingegnoso precursore, uno dei primi a sperimentare i vantaggi della cerniera lampo, il primo in Italia a impiegarla nell'abbigliamento per cani. 
 Fosse dipeso da lui, Gerolamo Di Gerolami avrebbe voluto fare l'avvocato (quand'era ancora studente alla facoltà di Giurisprudenza a Napoli andava spesso al Palazzo di Giustizia per sentire le arringhe degli avvocati famosi che s'imparava a memoria, traendone una gioia così grande che per giorni, in uno stato di esaltazione oratoria, costringeva gli amici a riascoltarle, quelle arringhe, recitate da lui) oppure, incoraggiato in questo dal nonno Aristide, gli sarebbe piaciuto arruolarsi in marina e seguire la carriera militare.
 Il suo destino fu invece un altro: il padre morì che ancora non aveva compiuto sessant'anni e lui si trovò a dirigere l'azienda di famiglia senz'avere un'effettiva preparazione manageriale alle spalle né una vocazione da capitano d'industria.

 Dietro la scrivania del suo ufficio, Gerolamo Di Gerolami teneva un grande ritratto del nonno Aristide, il fondatore, a cui era profondamente legato. Era una fotografia di quelle ingiallite, che mostrava su uno sfondo ovale un signore austero, con un volto carducciano, due baffi arricciati all'in su e l'aria leggermente risentita, sofferta, come se l'avessero fotografato appena un attimo dopo aver pronunciato l'opprimente sentenza: «Ah, poveri vecchi!»
 - Per carità, Gerolamo, basta! Mi sembra di sentire il tuo povero nonno Aristide! - gli urlava, stizzita, la moglie sorprendendolo a recitare il suo delirante sfogo: «Ah, poveri vecchi!», già in pantofole, piegato come uno sciatore alle prime armi, mentre si lasciava sprofondare sulla vecchia poltrona di cucina.
 Un giorno - cosa stupefacente e inattesa - senza che nulla in apparenza ne giustificasse la fine, il «delirante sfogo» terminò, svanì. Non si ripeté più, di colpo. 
 Il fenomeno lasciò sconcertati la moglie e i quattro figli di Gerolamo Di Gerolami che non se ne dettero una ragione, ma che tuttavia gioirono, furono felicissimi di non sentire più aleggiare per casa quel tormentone melodrammatico: «Ah, poveri vecchi!»
 La svolta fu repentina. Un giorno, al rientro dal lavoro, avvenne il miracolo: Gerolamo Di Gerolami smise di lamentarsi, così d'improvviso. Quasi che, per un qualche trauma, si fosse ravveduto del fastidio inflitto ai suoi cari. Sta di fatto che nessuno, in casa, lo sentì più pronunciare l'insopportabile frase - «Ah, poveri vecchi!» - su cui da anni si erano scaricati gli odi e le tensioni di tutta la famiglia. 
 La mortificante imprecazione «Ah, poveri vecchi!» non uscì più dalla bocca di Gerolamo Di Gerolami, il tormentone finì e questo, a dire il vero, avvenne in coincidenza dello svolgimento di alcuni piccoli lavori di ristrutturazione voluti dalla moglie. Dei lavoretti in cucina per imbiancare le pareti, ridare lucentezza al pavimento in cotto e tirare su una controcappa dentro il caminetto in modo da aumentarne il tiraggio. Fu così che, nell'euforico trambusto del rinnovamento domestico, la vecchia poltrona del nonno Aristide, nonostante le disperate proteste di Gerolamo Di Gerolami, finì in strada, abbandonata vicino a un cassonetto della spazzatura, insieme ad altre vecchie suppellettili e cianfrusaglie gettate lì alla rinfusa, in attesa di raggiungere la discarica più vicina.

novembre 2005

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Il racconto è uscito in
La governante di Jevons. Storie di precursori
dimenticati
, Campanotto 2007.



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