Paolo Albani
ALCUNI BIZZARRI EPIGRAMMISTI 

DEL NOVECENTO ITALIANO
CON UNA DIVAGAZIONE SULLA BREVITÀ
(estratto)


Appunti sull'epigramma stesi in preparazione del dialogo con Gino Ruozzi,  avvenuto il 30 aprile 2004, nell'ambito degli incontri della Scuola di retorica 2.  Alcune tradizionali figure della retorica nei linguaggi dell'oggi tenutisi nell'Aula Absidale di S. Lucia a Bologna, incontri cui hanno partecipato Andrea Battistini e Lucio Dalla (metafora), Gian Luca Farinelli e Gianni Venturi  (allusione), Giorgio Sandri e Luigi Stortoni (argomentazione), Gian Mario  Anselmi e Alessandro Bergonzoni (ironia).
Nel testo non figura Gino Patroni (1920-1992), l'autore di Ed è subito pera, il più grande epigrammista italiano, proprio in virtù del fatto che in questo scritto mi occupo di epigrammisti monori.

Una sintesi di questo scritto è stata pubblicata su Scuola di retorica, a cura di Angelo Varni, Bonomia University Press, Bologna, 2006, con il titolo «L'epigramma 2» (pp. 307-314).
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Sommario

Premessa
Gli epigrammisti de il Caffè
Alfredo Bonelli e la «vita da libri»
Learco Pignagnoli
Flavio Oreglio
Gli «epigrammi ruspanti»
Sandro Dorna
Il «limericco» italiano e dintorni
L'aforisma involontario
Una postilla personale
Una macchina per fabbricare aforismi
Una divagazione sulla brevità


Premessa

 In questo sintetico excursus (come, del resto, richiede il tema trattato) mi soffermerò sui testi di alcuni epigrammisti minori del Novecento italiano, quasi tutti non presenti nelle antologie e nei repertori degli studi accademici, epigrammisti che potremmo anche definire anomali, bizzarri, eccentrici. Mi occuperò cioè di alcune figure di letterati che, in modo insolito, atipico, hanno fatto i conti con le forme brevi di scrittura, in particolare con l'epigramma.
 Devo premettere, prima di iniziare la mia esile rassegna epigrammatica, che, per non impelagarmi in questioni teoriche e definitorie del tipo: «che cos'è un epigramma?» oppure «questo che abbiamo davanti è un epigramma?» o ancora «quanti modelli di epigrammi esistono?», «gli epigrammi hanno il naso dritto, salutano con una strizzatina d'occhi, portano i pantaloni alla zuava» e storie di questo genere, che, confesso subito, non sono alla portata della mia capacità di elaborazione critica, ho quasi sempre, salvo qualche svolazzo o licenza poetica, fatto riferimento a testi che l'autore stesso o altri per lui (un critico, un amico, ecc.) ha chiamato «epigrammi»: dunque sulle questioni concettuali ho deciso pilatescamente di lavarmene le mani.
 Sollevatomi dal peso di questa incombenza teorica, di questo macigno speculativo e dottrinale, direi che possiamo cominciare.  

 

Gli epigrammisti de il Caffè

 La rivista di «letteratura e satira» il Caffè, fondata nel 1953 da Giambattista Vicari, è stata una piacevole vetrina di epigrammisti, fra cui alcuni maestri del genere come Gaio Fratini e Guido Ceronetti. Di quest'ultimo, non sempre si ricorda la rubrica dall'indefinibile titolo Nuova Vaselina Sinfonica, dove si possono leggere scherzi come i seguenti, caratterizzati da un'aperta propensione al calembour:

Proustituta: meretrice che è anche lettrice di Proust.
Lisbica: lesbica libica.
Il dottor Gibaud ha una fascia da culo.
Si prega di non sbattere la potta.
Non discutiamo del cesso degli angeli.

 Si deve aggiungere che questi scrittarelli di Ceronetti, usciti sul numero 4-5-6 de il Caffè del 1973 (p. 27), costituiscono il primo nucleo di una nascente bizzarra accademia, l'«Istituto di Protesi Letteraria», che agirà all'interno della rivista di Vicari con l'intento, decisamente patafisico, di «rinnovare i registri della nostra letteratura», avendo a modello le sperimentazioni messe in atto dall'OuLiPo (Ouvroir de Littérature Potentielle), gruppo francese fondato negli anni sessanta del secolo scorso da François Le Lionnais e Raymond Queneau, cui accenneremo più avanti.
 I primi testi, presentati esplicitamente come «epigrammi», escono sul numero 2 de il Caffè del 1958 (pp. 47-48) a firma di Giulio Alessi, classe 1916, poeta e critico letterario, che ne pubblicherà altri sul numero 3 del 1958 (pp. 34-36). Sono epigrammi non proprio fulminanti, tutti preceduti da un titolo, come questo:

SOLILOQUIO DELL'IMPIEGATO ALTO

Mentre uscivo dalla banca, con due clienti bassi di statura che gentilmente mi lasciavano il passo, udii quello più piccolo mormorare: - Il più alto è sempre il più povero.

 Con l'appellativo di «Arguzie in versi» compaiono altri epigrammi sul numero 10-11 del 1959 (pp. 27-35), a firma di vari autori. Di Eraldo Miscia (1920), poeta e commediografo, ne riportiamo due:

Il successo
Il cane odora l'altro cane
e subito capisce il sesso.
Il fiuto
è la chiave del successo.
 

Ultime di cronaca
Per le statistiche
contano solo le unità.
Un pescecane
vale quanto un baccalà.

 Seguono quelli del poeta Marino Piazzolla (1910), di un Vile Anonimo e di una certa Sara Gasco Loret, autrice di questo epigramma intitolato «L'equivoco»:

Un tal Diogene uscì dalla sua botte
e al Pincio si trovò: s'era di notte.
Lui se ne andava con la lanternina
quand'ecco che un agente si avvicina:
- E lei, che cerca? Dica un po', buon uomo! -
E Diogene risponde: - Cerco l'uomo. -
- Ah, brutto porco! Un altro ne ho acchiappato! -
E Diogene finì al commissariato.

 Per essere esaustivi dobbiamo poi menzionare gli epigrammi di Rossana Ombres (1931) (2, 1962, pp. 37-38), di Carlo Villa (1931), autore di romanzi di beffarda ironia sui miti e le convenzioni borghesi (3, 1965, pp. 25-28; 5, 1967, pp. 48-49), di Attilio Steffanoni (2, 1968, p. 143), gli «epigrammi in prosa» del filologo Ottavo Panaro (1933) (2, 1971, pp. 110-113) e quelli «facili» di Leonardo Castellani (1896-1984), corredati da sette disegni dello stesso autore (11, 1974, pp. 4-8).
 Figura di bizzarro epigrammista de il Caffè è il colonnello Mario Zaverio (o Xavier, forma spagnola di Zaverio o Saverio) Rossi (1884-?), di Mirandola (Modena), autore di due testi: Apologia dell’aplologia, un quaderno d’appunti sulla classificazione e «codificazione antinomenclatoria» di alcuni giochi di parole, a partire da quello, utilizzato dagli enigmisti italiani, che va sotto il nome di «lucchetto» (il gioco consiste nel togliere la parte finale a una prima parola, l’uguale parte iniziale a una seconda e nel fondere le parti residue formando una terza parola: lo schema è Ax + xB = AB; ad esempio: LUpa + paCCHETTO = lucchetto), e del poemetto o «carme» È morto Massinissa, più lungo dei Sepolcri del Foscolo, in 435 endecasillabi, ciascuno dei quali contiene uno o più antipodi (l’antipodo è un gioco di parole con cui una lettera, iniziale o finale, viene mandata agli antipodi delle lettere rimanenti, permettendo una rilettura da destra a sinistra, così come accade, ad esempio, con la parola «banana»: portando la «b» agli antipodi di «anana», abbiamo «anana-b» che, letta da destra a sinistra, dà di nuovo «banana» da cui si è partiti, cosa che succede anche con il nome «M-assinissa»). Alcuni brani di È morto Massinissa sono stati pubblicati a più riprese dal colonnello (si veda in particolare: Mario Xavier Rossi, «Antipodi», L’Europeo, 26, 28 giugno 1979, p. 141, e 30, 26 luglio 1979, p. 77).
 Già addetto all'Ufficio Cifra del SIM, il colonnello Rossi è stato titolare delle cattedre di Messaggi Cifrati e di Istituzioni Retoriche all'Accademia Militare di Modena. Ateo e non massone, robustamente antifascista (bevuto l’olio di ricino nel 1921, conservò imbottigliati i frutti dell’affronto, e li fece trangugiare agli invecchiati mascalzoni nel 1945) e antimonarchico, sempre impassibile come Buster Keaton, ed erettissimo nella personcina (visto di spalle era tale e quale Giacomo Debenedetti), il colonnello vedeva un segno del destino di essere nato nel 1884, data in cui venne pubblicato il romanzo À rebours (tradotto in italiano con A ritroso oppure Controccorente) di Joris-Karl Huysmans.
 Tracce del colonnello Rossi troviamo in diversi testi di Giampaolo Dossena («Pseudobifronti», il Caffè, 1, 1977, pp. 36-47; «Una macchina di antipodi con ananas e banane», Tuttolibri La Stampa, 312, 1 maggio 1982, p. 8; Garibaldi fu ferito, Bologna, il Mulino, 1991, pp. 75-76).
 Sul numero 4 de il Caffè del 1965 (pp. 56-70), preceduti da una lettera di Rossi («Il culo dell'iceberg») indirizzata a Vicari, vengono pubblicati degli epigrammi del colonnello, fra cui questi:
 

Il Peppo
Il mio amico ed io
giocavamo alla palla sul Parnaso.
È cascata giù.

Il mio amico ed io
giocavamo a moscacieca sul Parnaso.
Il mio amico è cascato giù.
 

Ettore
C'era una volta un Sintomo
che si sentiva male;
faceva fatica
a fare le scale.
Diceva: «È sintomatico
che non riesco a andar su.
Ma se il fatto è sintomatico,
episodicamente,
non me ne importa niente.
La mia stanchezza è un simbolo
o almeno poco ci manca.
Una generazione stanca
si riconoscerà in me,
prima o poi,
e potrà fare più consapevolmente i fatti suoi.»
Così dicendo saliva le scale
e non si sentiva neanche più tanto male.
 

 Parlando de il Caffè di Vicari non si può non citare, fra gli esempi di scritture brevi prossimi agli epigrammi, i «Novantanove proverbi strutturalisti» di Anonimo ginevrino, «omaggio implicito al grande Ferdinando», dietro il quale si nascondono due noti studiosi di linguistica e semiologia, che oggi sappiamo essere Umberto Eco e Tullio De Mauro, proverbi strutturalisti che escono su il Caffè, 5/6, 1972, pp. 25-28.
 Sono proverbi come questi:

Chi Lacan l’aspetti.
Il Propp stroppia.
Chi struttura la vince.
Derrida bene chi scrive ultimo.
Chi non Cratilo non critica.
Vedi Peirce e Morris.
Ama la prossemica come te stesso.
Chi non fa semiologia trova le stringhe ma perde la via.
Chi lancia noemi fa scherzi da Prieto.
Se fori il referente, metti il triangolo. 
 


Alfredo Bonelli e la «vita da libri»

 Di Alfredo Bonelli, assiduo frequentatore di scritture brevi, e del suo libro Scene ordinarie di vite da libri, edito da Salvati, con dieci tavole illustrate di Diego Ferrari, mi sono occupato in una recensione apparsa su Il Provvisorio. Giornale artistico, letterario e politico del 5 maggio 2000 (pp. 10-11) (ora anche in: Paolo Albani, Il sosia laterale e altre recensioni, Milano, Edizioni Sylvestre Bonnard, 2003, pp. 75-84).
 In quella recensione scrivevo che, con i suoi «epigrammi in prosa» (così li chiama il suo autore: ricordiamo che Mario Andrea Rigoni ne Il pensiero di Leopardi, Milano, Bompiani, 1997, definisce l'aforisma «una sorta di epigramma in prosa»), Bonelli ha voluto fare «un tenero omaggio all’energetica fragilità dei libri, alla loro dignitosa e mirabolante sopravvivenza». Il volume di Bonelli, aggiungevo, «È un’apologia del libro in quanto "oggetto d’affezione", un gioco di rimandi antropomorfici in cui il mistero racchiuso in un plico di fogli rilegati si fa interprete di una quotidianità espressiva, mai banale e rassicurante. Le "scene di vita" descritte da Bonelli mostrano un campionario di umanità libraria che non si lascia corrompere dai luoghi comuni e dalle facili scorciatoie, che affronta a viso aperto le contraddizioni di un’esistenza per molti versi prevedibile e già catalogata».
 Le Scene ordinarie di vite da libri, che ha in esergo questo motto di un Anonimo del XVII secolo che dice: «Un libro è un libro», rappresentano un caso significativo di epigrammi in prosa a tema unico, cioè di brevi scritti tutti dedicati a un soggetto esclusivo, circoscritto, nel nostro caso, appunto, il libro.
 Ecco alcuni epigrammi tratti dalle Scene ordinarie di vite da libri di Bonelli:

 
 

Un libro incontrò un altro libro che nessuno aveva mai letto fino ad allora. Lo squadrò bene, dall’alto in basso della costola. Poi, con un’aria di sufficienza, gli disse: «Che intonso sei!»

***

Un libro se ne stava sdraiato sul dorso a guardare il cielo brulicante di letterine luminose. D’un tratto vide cadere una letterina ed espresse un desiderio: «Mi piacerebbe avere una ristampa!»

***

Un libro si eccitava sognando ogni notte una copertina diversa.

***

Un libro espose in modo così chiaro le proprie idee che gli altri libri presenti esclamarono: «Parli come un libro stampato!»

***

Un libro aveva un’idea fissa nel frontespizio: restare in bianco.

***

Un facsimile vide l’originale e gli disse: «T’immaginavo più magro!»

 Per il loro contenuto, gli epigrammi in prosa di Bonelli fanno venire in mente il testo di un grande scrittore, Max Aub (1903-1972), un maestro di scritture brevi con i suoi Delitti esemplari (1957), quadretti tragici e surreali di vita quotidiana, oltre che autore di un formidabile falso letterario, la biografia di un pittore mai esistito, Jusep Torres Campalans (1958), di cui si pubblicano anche i quadri, un pittore presentato come un anticipatore di Picasso, amico dei più grandi pittori della Parigi dei primi anni del secolo. 
 In un testo ancora inedito in italiano, Signos de ortografìa, pubblicato nel 1968 sul numero 23 della Revista de Bellas Artes, stampata in Messico, Aub racconta da «uomo di lettere», così sedotto dalla perfezione formale da dichiarare: «una fanciulla slanciata non lo sarà mai come una lettera Bodoni», le vicissitudini umane dei segni tipografici. E lo fa usando il respiro a lui familiare del componimento breve. Ne nasce una piccola antologia di epigrammi in prosa monotemaci, di cui, qui di seguito, diamo alcuni esempi nella traduzione di Anna Busetto Vicari.
 

Punti, virgole, lineette, parentesi, asterischi: quanti crimini si commettono in vostro nome!
Impalarlo in un punto esclamativo!
Camminava zoppo per un richiamo a piè di pagina.
Morì per un capolettera messo di traverso.
Gli cadde un asterisco e camminò piegato per tutta la vita.
Punto e a capo: la decapitazione.
Chiamavano quella povera prostituta «La postilla».  
 

Learco Pignagnoli

 Com'è noto Learco Pignagnoli ha scritto, fra le altre cose, dei Racconti brevissimi e dei Racconti così brevi che più brevi non si può, entrambi usciti su Il semplice, rispettivamente sul numero 1, 1995 (pp. 129-131) e sul numero 5, 1997 (pp. 114-118). Un cenno alla produzione micronarrativa di Pignagnoli si trova, a testimonianza dell'interesse che la sua figura ha suscitato anche in ambito accademico, in un recente saggio di Gino Ruozzi (si veda Gino Ruozzi, «Forme proprie e improprie dell'aforisma nella tradizione letteraria italiana» in: Giulia Cantarutti, La scrittura aforistica, Bologna, il Mulino, 2001, pp. 161-197). Sulla figura e le opere di Learco Pignagnoli, scrittore e filosofo, si è tenuto un convegno, organizzato da Daniele Benati e Ermanno Cavazzoni, presso la Fondazione Collegio San Carlo di Modena durante l'edizione 2003 del Festival della Filosofia.
 A ben vedere gli epigrammi di Pignagnoli sono da considerarsi più correttamente come delle «forme improprie» di epigrammi, per usare la terminologia ruozziana (si veda il già citato saggio di Ruozzi), nel senso che gli epigrammi del Pignagnoli non nascono come epigrammi intenzionali, voluti, deliberati, ma sono più che altro frasi occasionali, battute, pensieri sciolti, considerazioni sparse raccolte da altri in diversi contesti e periodi e successivamente riuniti in un libretto curato da Orazio Tagliaferro, che fu a lungo amico intimo del Pignagnoli. Nell'introduzione, Tagliaferro definisce «epigrammatiche» alcune «sentenze pignagnolesche».
 Dal libro del Tagliaferro traggo questi brani:
 

Alcuni amici di Pignagnoli raccontano che Pignagnoli andava spesso dal dentista o dall’urologo, anche se non ne aveva bisogno, solo per leggere quei settimanali scandalistici che si trovano nelle sale d’aspetto dei medici - Chi è?, Il Sabato e la Domenica dei vip, Dietro le quinte, La TV fra sorrisi e palloni - che in edicola Pignagnoli si vergognava a comprarli. Prendeva spunto dalla lettura di quei giornaletti per scrivere aforismi sul tema dell’invidia, della morte e su altri ancora.

La seconda moglie di Pignagnoli confidò a un’amica che il marito aveva l’abitudine, un attimo prima di mettersi a tavola, di leggere a voce alta, con una certa enfasi, il titolo di un articolo della Gazzetta dello Sport, come se fosse stato l’incipit di una poesia. Le rivelò anche che Pignagnoli perse quell’abitudine quando Felice Gimondi si ritirò dalle corse. Una volta, sempre a stare al racconto della sua seconda moglie, Pignagnoli, prima di leggere il titolo di un articolo della Gazzetta dello Sport, si lasciò andare a questa considerazione: «La poesia è come la barbabietola, il meglio sta sotto». [Faccio notare che l'affermazione del Pignagnoli assomiglia molto a quello di Achille Campanile: «Gli asparagi sono come gli epigrammi: tutto il buono è nella punta», che forse Pignagnoli non conosceva].

È un particolare risaputo che, in certe occasioni (di solito quando aveva bevuto del tamarindo o dopo una partita a bocce), Pignagnoli si abbandonava a un suo personale, arabizzante modo di scrivere: gli succedeva di srotolare le parole da destra verso sinistra. Così, se doveva scrivere la frase: «La curva è pericolosa, ma bella», la componeva sul foglio partendo da «alleb» e la finiva con «aL». Diceva che scrivere in quel modo gli ricordava lo sforzo eroico di quando si affrontano le salite in bicicletta. Sempre alla rovescia si divertì a scrivere questo pensiero tristissimo, a suo modo denso di significati: «Se il mio cane sapesse che un giorno morirà, mi chiederebbe più crocchette».

Da bambino Pignagnoli si arrampicava come uno scoiattolo sopra i peschi allineati su cinque file nel campo dello zio, e da lì gli piaceva sputare il nocciolo delle pesche sulla testa dei bambini che giocavano sotto di lui. Un giorno la mamma se ne accorse e lo sgridò: «Learco, non si fa così». Allora lui, impermalito, salì di nuovo sopra un pesco e sputò su una bambina la polpa della pesca macchiandole il vestitino, che le macchie di pesca sono difficili da togliere. Da grande, il ricordo di quell'episodio gli suggerì questo pensiero: «Le donne quando vogliono sono proprio delle grandi rompicoglioni».

Si dice che una volta, osservando il mare dalla terrazza della Pensione Eden, a Zadina Pineta sulla costa adriatica, Pignagnoli se ne uscì con questa attenta riflessione (ripresa anche in una sua poesia): «Se il mare fosse piccolo non sarebbe più il mare».

Un pomeriggio, mentre in camera da letto svitava una lampadina fulminata da uno dei bracci ricurvi del lampadario, Pignagnoli cadde dallo scaleo e si ruppe la gamba destra. Lo ingessarono fin sopra al ginocchio e sul gesso, come risulta dalla testimonianza della sorella, scrisse a caratteri minuscoli questa frase: «C'è più musica in uno starnuto che in tutte le sinfonie di Beethoven». Dopo quaranta giorni gli tolsero il gesso, che fu buttato via, dentro il raccoglitore dei rifiuti inorganici dell’ospedale, insieme alla frase del Pignagnoli, che infatti non figura in nessuno dei suoi testi.

Finito il liceo, Pignagnoli avrebbe voluto iscriversi alla Facoltà di Ingegneria di Bologna, ma non lo fece, perché, al momento dell’iscrizione, si rifiutò di compilare la domanda su cui c'era scritto: «Al Magnifico Rettore». «Io neanche lo conosco il rettore» disse Pignagnoli all’impiegata della segreteria studenti della Facoltà di Ingegneria. «Magari è brutto come un rospo, altro che magnifico!» Mentre stracciava il foglio dell’immatricolazione, in molti lo sentirono bofonchiare questa massima: «Dietro le loro cattedre imponenti, i professori universitari si fanno delle grandi pugnette!»

Una volta, a Cavriago, vicino a Reggio Emilia, mentre, su un lato della strada, vedeva sfilare i corridori del Giro d'Italia, belli sudati e vigorosi con le loro magliette colorate aperte sul petto, Pignagnoli si commosse e formulò questo pensiero: «Nella coscia di un ciclista c'è tanto di quel muscolo che basterebbe a sfamare più di cento gatti randagi!»  
 

Flavio Oreglio

 Vorrei sottoporvi un piccolo esercizio di filologia incauta. Nel suo Manuale di poesia (Parma, Guanda, 1995), Giuseppe Conte sostiene che l'epigramma «è un componimento le cui caratteristiche essenziali sono la brevità, la ricerca di una chiusura sorprendente, il secco tono aforismatico, quello di denuncia, quello del sarcasmo, la condensazione erotica».
 Lo stesso concetto ritroviamo nell'«Introduzione» agli Epigrammi italiani. Da Machiavelli e Ariosto a Montale e Pasolini (Torino, Einaudi, 2003) quando Gino Ruozzi scrive: «Là dove c'è veleno e brevità molto probabilmente c'è un epigramma; che diventa ancora più efficace se è accompagnato da inversioni e chiuse impreviste (le acutezze). Sta forse nel fattore sorpresa la differenza con le satire; nel senso che anche l'epigramma appartiene in moltissimi casi al vasto mondo della satira [...]; ma l'elemento sorpresa, il finale ben riuscito, dovrebbe costituire un punto d'orgoglio e distintivo, per usare il criterio magistralmente indicato da Lessing nelle sue note osservazioni sull'epigramma (Zerstreute Anmerkungen über das Epigramm, und einige der vornehmsten Epigrammatisten, 1771)» (p. XVIII).
 Dunque, seguendo questa linea interpretativa che va da Lessing a Ruozzi passando per Conte, credo non sia un azzardo annoverare nel genere «epigramma», testi come quelli che seguono, maledettamente brevi, sarcastici e tutti giocati da «chiuse impreviste»:

Tu non sai cos'è la vita,
tu non sai cos'è l'amore,
tu non sai cos'è un sorriso...
Mi sono messo con una deficiente.
 

Come Beatrice per Dante,
come Laura per Petrarca,
come Silvia per Leopardi,
così sei tu per me amore...
Una stronza che si rifiuta di darmela!
 

Sento le tue mani sul mio corpo,
sento le tue mani sul mio viso,
sento le tue mani sulle mie labbra...
Che due maroni la mosca cieca!
 

 Che poi, come si sarà capito, sono le poesie di Flavio Oreglio, poeta non proprio sublime, tratte dal suo libro Il momento è catartico (Milano, Mondadori, 2002). 
 

Gli «epigrammi ruspanti»

 Una volta Umberto Eco si è occupato degli autori di quarta dimensione, quelli che pubblicano a proprie spese (cfr. Umberto Eco, «L'industria del genio italico», in: Valerio Riva, a cura di, L’Espresso 1955/85. 30 anni di cultura, Roma, Editoriale L’Espresso, 1985, pp. 29-47; e anche in «Varia et Curiosa. Storia dei fous littéraires», L'esopo, 89-90, marzo-giugno 2002, pp. 9-32).
 Il termine «quarta dimensione» rientra in una classifica, retta da criteri sociologici e non valutativi, in cui, secondo Eco, può essere suddiviso il mondo letterario. Esiste una prima dimensione letteraria che è rappresentata dal manoscritto (non di rado alle case editrici arrivano «testi di quattrocento pagine inviati da colonnelli in pensione per dimostrare che la teoria della relatività è falsa, che Newton ha sbagliato le sue formule», ecc.); la seconda dimensione è quella delle riviste e dei libri, pubblicati da editori più o meno grandi e noti; la terza dimensione è quella del libro di successo, recensito e tradotto all’estero, ristampato a più edizioni in patria; c’è infine la quarta dimensione che accoglie quei testi che non passano dalla prima alla seconda dimensione e si regge sul giro d’affari di un editore sconosciuto che pubblica facendosi elargire un contributo finanziario dall’autore. «Chi entra nella quarta dimensione letteraria può trascorrere una vita felice, attorniato da lettori, onorato, se non da discepoli, da amici e parenti devoti, in fitta corrispondenza culturale e affettiva coi propri simili, da un capo all’altro d’Italia. Come un esercito di “alieni” scesi da un altro pianeta per vivere accanto a noi, come comuni esseri umani, essi ci sfiorano ogni giorno: sono il pensionato seduto ai giardini, l’impiegato di banca che ci ritira l’assegno, la signora del pianerottolo accanto. Sono, rispetto agli scrittori della seconda dimensione, novantanove contro uno. Sono, statisticamente parlando, l’ossatura del costume letterario italiano» (Umberto Eco, «L'industria del genio italico», op. cit., pp. 32-33).
 Al tema degli autori di quarta dimensione (portatori di manoscritti che vorrebbero pubblicare con editori seri) è rivolto il libro di Fabio Mauri I 21 modi di non pubblicare un libro, Bologna, il Mulino, 1990, che, guarda caso, ha una prefazione di Eco.
 Perché ho accennato agli autori di quarta dimensione? 
 Perché ho scovato, per caso, sfogliando uno schedario a soggetto della Biblioteca Nazionale di Firenze, un tipico esemplare di autore di quarta dimensione, un certo Attilio Canaletti, poeta grossetano, agricoltore di professione e animalista per passione, fondatore nel 1951 dell'«AAVV - Associazione Amici dei Volatili e Vegetali» (come si legge nella sua nota biografica), che ha pubblicato nel 1956, a proprie spese, presso la tipografia dei fratelli Marini di Grosseto, un libretto contenente 134 epigrammi, da lui chiamati «ruspanti», perché interamente dedicati alla gallina, animale domestico vittima, come si sa, di ingenerosi luoghi comuni. Leggendo gli Epigrammi ruspanti del Canaletti non si può fare a meno di pensare alle deliziose storielle raccontate da Luigi Malerba ne Le galline pensierose (1980), o alla famosa canzone di Cochi e Renato.
 Gli epigrammi del Canaletti, metricamente non omogenei (oscillano dai due ai quattro versi), tutti rigorosamente in rima (gli schemi ricorrenti sono ABBA e ABAB), si risolvono in un divertente capovolgimento dei ruoli, dove il confronto fra l'umanità della gallina e la stupidità dell'uomo (specie l'uomo politico) ha il sapore di un'amara denuncia, vagamente ispirata a idee socialisteggianti.
 Ecco alcuni «epigrammi ruspanti» del Canaletti:

La osservo quando becca e saltabella
fra i sassi e le zollette di un prato riposante.
Mi accorgo allora in quell'istante
che la gallina è tenera perché non si arrovella.

Nell'animo di una gallina
c'è un fondo di vera umanità.
Lo sguardo poi alla mattina
è quello di un politico che parla di onestà.

Ad ogni età la gallina ripete il suo verso
spargendo nell'aria allegri: «Coccodè, coccodè»,
mentre l'uomo che da vecchio si sente perso
sospira tristemente: «Povero me! Povero me!»

La gallina in sé non coltiva
il mito del danaro esoso.
L'amicizia nel pollaio per lei giuliva
è il bene più prezioso.

Una gallina fa le uova regolari
nei giorni di lavoro e delle messe.
Zelante mantiene le sue promesse
non come i più dei nostri parlamentari.

Se una gallina si mettesse a scrivere
di certo impiegherebbe le sue penne.
E forse comporrebbe versi in modo più solenne
di tanti poetastri afflitti dal mal di vivere.

La gallina rifugge gli slanci spirituali
non si è inventata come l'uomo un al di là.
Lei crede solo nella propria gallinità
essendo la più laica fra tutti gli animali.  
 

Sandro Dorna

 Sandro Dorna, classe 1938, è giornalista (ha collaborato con La Stampa, L'Europeo, Il Giornale dell'Arte, la RAI) e autore di testi giocosi come l'Anagramma è gioco tosto, presentato da Umberto Eco (il titolo è l'anagramma dell'editore: Gaetano Mastrogiacomo di Padova, 1978); C'è l'arte non liscia, presentato da Giampaolo Dossena (Torino, Martano, 1981); Acrostici anagrammati, presentato da Saverio Vertone (Torino, L'uovo di Struzzo, 1992) e Che cos'è l'arte, presentato da Ugo Castagnotto (Torino, Umberto Allemandi, 1994).
 Nel 1998, presso l'Edizioni L'Obliquo di Brescia, Dorna pubblica un libretto intitolato, con un gioco di parole fonetico, J'ai des mots
 Si tratta di una raccolta di epigrammi che sfruttano con grande abilità e inventiva le ambiguità del linguaggio, gli slittamenti di significato, a volte al limite di quello spaesamento che ci procurano le crittografie mnemoniche (mezzo minuto di raccoglimento: il cucchiaino). Nella prefazione, Giuseppe Pontiggia definisce Dorna un «cacciatore di parole... che ha imparato a osservarle controluce e a moltiplicarne i significati ottici variando la messa a fuoco dei pieni e dei vuoti [...] Dorna ama [...] entrare nei negozi di oggetti usati, di proverbi arruginiti, di luoghi comuni. Li scruta da ogni parte, li capovolge. Sembrano inservibili, li acquista a poco prezzo. E invece a caro prezzo - di lavoro e di lima - li rende rilucenti». A proposito di un epigramma di Dorna: «Nessuno può riparare / una perdita di tempo», che sembra un omaggio a Seneca delle Lettere a Lucilio, Pontiggia osserva: «Forse è questa la radice dell'amore per la brevitas».
 Vediamo alcuni epigrammi del Dorna:

Pazientate,
il tempo libero passa.

Il metro di giudizio
non è mai lineare.

La donna si realizza
quando è colta.

Ogni vano
è utile.

È impossibile stare al passo
con i tempi che corrono.

Una violenta passione
può mettere in croce.

Gli uomini desiderano
molte donne perché una
è troppo.
 

Il «limericco» italiano e dintorni

 Parenti stretti dell'epigramma sono il limerick, l'«incarrighiana» e la «clerihew». 
Il limerick è una poesiola nonsensica in cinque versi, con uno schema ben preciso (il primo, il secondo e il quinto verso rimano fra loro, mentre il terzo verso rima con il quarto), di ritmo giambico-anapestico, contenente in genere nel primo verso il riferimento a un luogo geografico. I limericks (per alcuni la parola deriva da Limerick, città irlandese, famosa per l'assedio del 1690-91 di cui parla Laurence Sterne nel Tristram Shandy) furono resi famosi da Edward Lear (1812-1886), pittore, insegnante di disegno della regina Vittoria. In realtà, come precisa Dossena, Lear «non scrisse veri limerick (cose da osteria, volgari e sensate), ma dei nonsensi, che hanno la forma del limerick ma argomenti e toni ben diversi» (Giampaolo Dossena, «Limerick» voce dell'Enciclopedia dei giochi, 3 voll., Torino, Utet, 1999).
 Da Il libro dei nonsense (Torino, Einaudi, 1970) ecco un limerick di Lear nella traduzione di Carlo Izzo:

C'era un vecchio di Caltagirone
Con la testa non più grande d'un bottone;
Quindi, per farla sembrare più grande,
Comperò una parrucca gigante
E corse su e giù per Caltagirone.

 Hanno scritto dei limericks scrittori come Lewis Carroll, Robert Louis Stevenson, James Joyce e anche il filosofo, premio Nobel per la letteratura (nel 1950) Bertrand Russell. Sembra ci sia un limerick citato fra i versi de La terra desolata di T.S. Eliot (T.S. Eliot, La terra desolata, Torino, Einaudi, 1963, p. 31).
 Il limerick è la più popolare delle forme epigrammatiche inglesi. Lo dice anche l'Encyclopaedia Britannica del 1951 dove si legge che «Il limerick è [...] un tipo di epigramma licenzioso che passa di bocca in bocca più spesso sussurrato che cantato».
 Dopo le traduzioni delle poesie di Lear ad opera della Camilla Poggi Del Soldato (verso il 1930 per l'Enciclopedia dei Ragazzi), di Carlo Izzo (1935, 1945 e 1970) e di Mario Praz (1938), in Italia il limerick raggiunge una certa popolarità con il Giro d'Italia in limericks promosso dai «Wutki» sulla rivista Linus negli anni 1972-1974. «Wutki» (che fu un pittore svizzero) è il nome della rubrica di giochi diretta da Sergio Morando (1923-1982), che è stato condirettore editoriale alla Bompiani, assieme a Paolo De Benedetti (di cui parleremo fra poco) e a Umberto Eco, passato poi alla Garzanti e a Mondadori. Nel 1966 Morando cura l'Almanacco Letterario Bompiani dedicato al gioco, che contiene un bellissimo saggio di Paolo De Benedetti sulla «Letteratura nonsensica» (ora anche in Paolo De Benedetti, Nonsense e altro, Milano, Libri Scheiwiller, 2002, pp. 104-128).
 In quegli anni i Wutki scoprono che i limericks sono «una passione italiana latente», ne arrivano tantissimi in redazione, qualcuno, come Luciano Marchesini di Torino, ne manda 100. Su Linus compare anche un limerick del colonnello Mario Zaverio Rossi, di cui abbiamo visto alcuni epigrammi usciti su il Caffè di Vicari:

Fra i poliglotti bagnanti di Spa
sono frequenti freddure comme ça:
Il contrario di abbondantemente
(leggi: A Bonn Dante mente)
è che a Berlino Petrarca dice la verità.

e viene ripubblicato un epigramma di Luigi Compagnone (1915-1998) che «sarebbe anche potuto passare per un limerick»:

C'era un vecchio lettore di Ferrara
che la sua città aveva assai cara.
Lesse Bassani e la sentì più cara.
Se lo rilesse, e si ordinò la bara
stufo ormai di Bassani e di Ferrara.

 In effetti, la sezione «Nonsense» del libro di Compagnone Che puzo! Epigrammi e Nonsense, Milano, All'insegna del Pesce d'Oro, 1973, pp. 67-82, è formata da composizioni poetiche che hanno la forma del limerick, tanto per rimarcare una certa vicinanza tra epigramma e limerick (sul «limericco» italiano si veda Carmine De Luca, «Limerick all'italiana», LG argomenti, rivista del Centro studi di letteratura giovanile di Genova, 1, gennaio-marzo 1993).
 Uno dei primi autori italiani di limericks è Giuseppe Isnardi, nipote dell'ingegnere Giovenale Gastaldi che costruisce per Lear prima villa Emily e poi villa Tennyson a Sanremo. Quando Lear muore, Isnardi ha soltanto due anni, quindi non ha avuto modo di conoscerlo: ciò nonostante da grande scriverà su Lear, ne tradurrà i Diari di viaggio in Calabria e nel Regno di Napoli, ma soprattutto comporrà lui stesso - «austero storico e pedagogo, collaboratore de La Voce come della Società geografica italiana» - decine di limerick come il seguente:

C'era una giovane donna di Roma
che portava disciolta una gran chioma.
Tutte le volte che il vento soffiava
lieta e felice pe 'l cielo volava
questa gentile fanciulla di Roma.

 Un altro autore italiano di limericks è Paolo De Benedetti, direttore editoriale, biblista, consulente di molte case editrici. Mi piace ricordare che De Benedetti è uno dei principali biblisti italiani, docente di Giudaismo presso la Facoltà Teologica dell'Italia Settentrionale di Milano e di Antico Testamento presso gli Istituti di Scienze Religiose delle Università di Urbino e Trento. Tra i suoi scritti: La morte di Mosé e altri esempi (1978), La chiamata di Samuele (1976), Ciò che tarda avverrà (1992), Quale Dio? (1997), Introduzione al giudaismo (2001). Recentemente, presso le Edizioni San Paolo di Milano, ha pubblicato una raccolta di poesie intitolata Gattilene.
 De Benedetti è l'artefice del più lungo poema in limerick, cioè il Viaggio in Limerick sul Reno e dintorni / dai Paesi Bassi alla Svizzera / con osservazioni storiche & geografiche / & pittoriche & una incarrighiana morale / di due ill.mi Dottori dell'Ambrosiana (1957) (ora in Paolo De Benedetti, Nonsense e altro, Milano, Libri Scheiwiller, 2002, pp. 19-25). L'altro ill.mo Dottore è Mario Spagnol (1930-1999). 
 L'«incarrighiana» è una poesia in ottonari che prende il nome da Ferdinando Incarriga (o Ingarriga), giudice napoletano alla Gran Corte criminale nel Palazzo di Giustizia di Salerno, che nel 1834 a Napoli dette alle stampe l'Opuscolo che contiene la raccolta di cento anacreontiche su di talune scienze, belle arti, virtù, vizj, e diversi altri soggetti. Queste anacreontiche, poi chiamate Incarrighiane, sono poesie di comico involontario con strane acrobazie verbali e spesso con l'ultimo verso apocopato, che si prefiggono di dare delle definizioni. Il libro ebbe molto successo, se ne vendettero molte copie, anche perché i parenti dell'Incarriga ne comprarono di nascosto numerose copie per sottrarre dal ridicolo il loro congiunto.
 Ecco una tipica «incarrighiana»:

L'astronomia

Stronomia è scienza amena
   Che l'uom porta a misurare
   Stelle, Sol e'l glob' Lunare,
   E a veder che vi è là sù.
Quivi giunto tu scandagli
   Ben le Fiaccole del Mondo
   L'armonia di questo tondo
   Riserbata a Dio sol' è.

 Molto simili alle Incarrighiane si presentano certe strofette di Ettore Petrolini (1884-1936):

È la moglie quella cosa
che per lusso e per vestito
spende il doppio del marito
e si chiama la metà.

 Ma torniamo al De Benedetti e vediamo alcuni suoi limericks:

C'era un vecchio di Lambrugo
che mangiava pane e sugo
quando n'ebbe pien lo stomaco
si pentì e si fece monaco,
quell'ascetico vecchio di Lambrugo.

C'era un uomo dell'Unesco
che teneva il burro in fresco
da spalmare sul paese
dove scoppiano contese,
quel pacifico uomo dell'Unesco.

 Fra gli autori italiani di limerick troviamo anche Gianni Rodari (1920-1980) che nella Grammatica della fantasia. Introduzione all'arte di inventare storie (Torino, Einaudi, 1973) dedica un capitolo alla «Costruzione di un "limerick"» (pp. 43-45). Nel suo saggio Rodari cita lo studio di due semiologi sovietici T.V. Civ'jan e D.M. Segal «Struttura della poesia inglese del nonsense (sulla base dei limericks di Lear)» in I sistemi di segni e lo strutturalismo sovietico, a cura di Remo Faccani e Umberto Eco, Milano, Bompiani, 1969, studio che «aprirà le porte al limerick di massa», come afferma Pier Paolo Rinaldi nel saggio «Un girotondo intorno al limerick (bambini e vecchi, semiologi e illustratori, poeti, poetesse e maghi)» in: Max Manfredi e Manuel Trucco, Il libro dei Limerick. Filastrocche, poesie e nonsense, con prefazione di Stefano Bartezzaghi, Milano, Vallardi, 1994, pp. 143-246. Questo di Rinaldi è uno dei saggi più importanti sull'arte del limerick uscito in Italia (dello stesso Rinaldi si veda anche Il piccolo libro del nonsense, sempre con prefazione di Stefano Bartezzaghi, Milano, Vallardi, 1997).
 Ecco due limericks di Rodari:

Un signore molto piccolo di Como
una volta salì in cima al Duomo
e quando fu in cima
era alto come prima
quel signore micropiccolo di Como.

Una volta un dottore di Ferrara
voleva levare le tonsille a una zanzara
L'insetto si rivoltò
e il naso puncicò
a quel tonsillifico dottore di Ferrara.

 Un limerick, composto in inglese, compare anche nel Maramao (Milano, Longanesi, 1989, p. 108) di Guido Almansi (1931-2001): 

There was a young girl from Vancouver
Whose portrait now hangs in the Louvre.
Her name was Theresa, but became Mona Lisa
By means of a clever manoeuvre.

[C'era una giovane di Vancouver
il cui ritratto è appeso al Louvre.
Si chiamava Teresa, ma divenne Monna Lisa
con astute manovre. ]

accanto a una serie di clerihews, quartine umoristiche senza un metro preciso su un personaggio noto, che prendono il nome dal loro inventore, il giornalista e scrittore inglese di gialli Edmund Clerihew Bentley (1875-1956):

Dante

Dante
Era molto arrogante.
Di parlare coi santi assumeva il diritto.
Solo col Padre Eterno è stato un poco zitto.
 

Ugo Foscolo

Ugo Foscolo
Era proprio un discolo
Quando scriveva un sonetto
Imperfetto.
 

Giorgio Bassani

A Giorgio Bassani
Non piaccion punto i nani.
Gli ricordan, quegli omini,
L'autore dei Finzi Contini.

 Nel 1994 Max Manfredi (1956), cantautore (discografia: Le parole del gatto 1990; Max 1994 che ospita Fabrizio De André; L'intagliatore dei santi 2001) e Manuel Trucco, che spero non sia l'Ambasciatore cileno negli Stati Uniti al tempo di Pinochet, hanno fatto «Il giro del mondo in 320 limerick», ne Il libro dei Limerick. Filastrocche, poesie e nonsense, Milano, Vallardi, scrivendo limericks seducenti, tragici, conviviali, titanici, felici, litigiosi, gastronomici, gotici, clericali, filosofici. 
 Il libro di Manfredi e Trucco si apre con dei limericks autoreferenziali, nel senso che parlano del limerick:

Il limerick, t'educe il dizionario,
è filastrocca d'argomento vario
che, con ritmo anapestico
vale a farti domestico
un mondo parallelo e immaginario.

Il limerick sta all'arte e alla poesia
come bruschetta alla gastronomia.
Ma l'agile sua metrica,
come un'abile ostetrica,
aiuta i parti della fantasia.

Il limericco e il lucido epigramma
son figli, in fondo, della stessa mamma.
Papà non è lo stesso
Più evasivo e più fesso
il nostro. Ma possiamo farne un dramma?

 Per quanto ci consta, «limericco» è termine coniato da Stefano Bartezzaghi, come forma italianizzata di limerick (più avanti vedremo altre traduzioni o meglio «mistraduzioni» di questa parola inglese), nella «Prefazione» a Il libro dei Limerick di Manfredi e Trucco.
 Nella sua raccolta di Canzoni politiche (Milano, Feltrinelli, 2000), Michele Serra ha inserito dei «limericks elettorali»:

C'è una festa aziendale al Lingotto
con Agnelli e Cipputi a braccetto.
La sinistra fa il sunto
del successo raggiunto:
ha prevalso per solo una Punto.

C'era un seggio abusivo a San Marco
allestito con mezzi da sbarco:
niente urne né schede
e un blindato per sede
di quel seggio di piazza San Marco.

C'era un giovane di Bardolino
che puliva il suo mitra col vino.
Ma provando il mirino
già sentiva quel guappo
che lo sparo sapeva di tappo.

 Altri limericks, un po' irregolari perché di sei versi, Serra aveva presentato in Poetastro. Poesie per incartare l'insalata (Milano, Feltrinelli, 1993, alle p. 56 e pp. 68-78):
 

Questione senile 1

Un povero vecchietto di Platì
fedele nelle urne alla diccì
si vide dimezzare la pensione
e pianse per la gran disperazione.
Tra qualche mese rivoterà diccì
quel vecchio idiota nel seggio di Platì.
 

Questione senile 2

Una studiosa di storia della Cina
seduta in un salotto di Cortina
nel sessantotto sgridava chi non fosse
d'accordo con le grandi guardie rosse.
Adesso sgrida la colf che col piumino
ha rotto un vaso prezioso di Nanchino.
 

 Si è detto che in origine il limerick è un epigramma licenzioso. Su questo versante famosi sono quelli composti dallo scrittore inglese Norman Douglas (1868-1952) che nel 1928 pubblicò a Firenze Some Limericks: Collected for the use of Students, & Esplendour'd with Introduction, Geographical Index, and with Notes Explanatory and Critical. Questa raccolta, con il titolo Certi limerick, è stata pubblicata nel 1990 dall'Alessandra Carola Editrice di Napoli, con testo a fronte inglese, tradotta e curata da Benito Iezzi, con una nota introduttiva di Aldo Busi. 
 Ecco un limerick di Douglas nella traduzione di Giorgio Weiss:

C'era un giovin idraulico di Harare,
che pompava una tizia in riva al mare.
«Ferma quel che stai facendo:
c'è qualcun che sta venendo!»
«Son io!» pompando disse quel di Harare.

 Di tipo decisamente erotico sono le 366 «limèriche» (una al giorno, compreso l'anno bisestile, 46 in più di quelli di Manfredi e Trucco), poesie nonsensicali contenute nel libro di un certo Sergio Sesto Serpillo dall'inequivocabile titolo Che Dio la benedica! (Valentano, Scipioni, 2001), che ha un saggio introduttivo di Giorgio Weiss, anch'egli autore di limericks sul tema delle nuvole, apparsi sul numero 14 della rivista La Corte del 1992. 
 Recentemente, per via di alcune recensioni di «libri immaginari» che apparvero su una rubrica intitolata «Equilibri» de il Caffè di Vicari, sono entrato in contatto epistolare con Pier Francesco Paolini, scrittore, anglista e traduttore, che, donandomi il licenzioso libretto di «limèriche», mi ha svelato di essere lui quel tal Sergio Sesto Serpillo. 
 Ecco tre «limèriche» del Paolini-Serpillo:

C'era un Ottuagenario in quel di Trento
Che scopava soltanto a lume spento.
All'Amante un po' offesa
spiegava, a sua difesa:
"Perché la terza, sai, la faccio a stento."

C'è un Famoso Tenore di Racalmuto
che, quando gode, gli scappa un acuto
dal culo - in do maggiore.
Per le donne è un onore
udir quel do di peto a Racalmuto.

C'era una volta un Principe di Odessa
che il bacio di una bella Principessa
tramutò in un Ranocchio.
Lei allora, in ginocchio
se lo ficcò ridendo nella Fessa.

 Nell'ultimo paragrafo della postfazione ai Limericks di Edward Lear, pubblicati nel 2002 nella «Collezione di Poesia» dell'editore Einaudi, il curatore e traduttore, Ottavio Fatica, ha riportato una «lima ricca» indirizzata a se stesso:

C'è un poeta che faccio fatica
A tradurre, che vuoi che ti dica,
Si tiene per savio
Ma è solo un ottavio
Di poeta, e non senza fatica.

 Un'ultima curiosità bibliografica. Nel già citato saggio «Un girotondo intorno al limerick», Pier Paolo Rinaldi cita il libro di Giampaolo Dossena Luoghi letterari. Paesaggi, opere e personaggi (Milano, Sugar, 1972, poi Milano, Edizioni Sylvestre Bonnard, 2003) che si apre, nel primo luogo letterario preso in considerazione, cioè Abano Terme (Padova), con questo limerick, datato 1955 e successivamente attribuito a Sergio Morando:

C'era un vecchio goloso di Abano
le cui figlie coi Turchi folleggiavano
inventando sempre nuove tecniche erotiche
però mangiando unicamente cotiche:
il che stupiva quel vecchio di Abano.

 La voce «Abano Terme» è interamente dedicata da Dossena al limerick, su cui ritorna anche discorrendo di altre città. Fra le altre cose, Dossena pubblica alcune prove di Gian Carlo Cabella, come questa:

C'era un vecchio quadrivio a Novi Ligure
ove ogni notte stazionava un Lèmure
che, non avendo spiccioli da spendere,
le sigarette si faceva accendere
dai nottambuli, rari a Novi Ligure.

 Questo, come altri limericks di Cabella riportati nel libro di Dossena (si veda Novi Ligure e Piovera, in provincia di Alessandria; Ronco Scrivia in provincia di Genova; Vobarno in provincia di Brescia), sono tratti dal libro Tuctitalia in limericks dello stesso Cabella pubblicato nel 1964 a Pasturana (Alessandria) presso la Tipografia Artigiana. Ora, se vi venisse voglia di ricercare il libro di Cabella nelle biblioteche o presso i più accreditati librai d'antiquariato, vana risulterebbe l'impresa...

[...] 

Una divagazione sulla brevità

 Commentando il saettante epigramma di Franco Fortini: «Carlo Bo. | No.», contenuto ne L'ospite ingrato secondo (Casale Monferrato, Marietti, 1985), Giorgio Bertone scrive: «Carlo Bo in realtà è il titolo; dunque il monosillabo "No" è la più breve poesia italiana e forse il più breve epigramma mai concepito; che sia inoltre una negazione su rima tronca, 'comica', s'addice perfettamente alla struttura e al genere in questione» (Breve dizionario di metrica italiana, Torino, Einaudi, 1999).
 Ora, se è innegabile che l'epigramma di Fortini è breve, anzi brevissimo, bisogna dire che, nel vasto panorama della sua produzione letteraria, si tratta di un episodio isolato, di un fenomeno eccezionale, di un gesto irripetibile. A differenza di Fortini, c'è invece un poeta, Saverio Ascari di Canossa, un paese vicino a Reggio Emilia, che ha composto poesie tutte rigorosamente di una sola parola. Ce n'è una, ad esempio, che s’intitola «Colore» e fa: Blu. Un’altra che ha per titolo «Cavallo» recita così: Animale. In un’altra ancora, intitolata «Elettrodomestico», si legge: Frigorifero oppure Televisione. Del poeta Saverio Ascari si è occupato criticamente il professor Guarini, com'è documentato nel libro Silenzio in Emilia di Daniele Benati (Milano, Feltrinelli, 1997, pp. 30-41).

Se le poesie di Ascari sono monovocaboliche, quelle di Luis Felipe Pineda si condensano in un solo verso. Diligentemente custodite in un «Archivio di poesie abbandonate», ecco alcuni dei componimenti di Pineda:

Amo il twist della mia sobrietà.

Sarebbe fantastico essere come gli altri.

Non dirò che un rospo sia.

 Una volta Pineda scrisse su una cartina questa poesia: «La stupidità non è il mio forte»; poi arrotolò la cartina trasformandola in una sigaretta che si fumò tranquillamente. Quando ebbe terminato di fumarsi la sua poesia disse sorridendo: «L'importante è scriverla» (Enrique Vila-Matas, Bartleby e compagnia, Milano, Feltrinelli, 2002, pp. 125-132).

[...]




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