KUABRIS DEFRABAX REXULON UKZAAB (*) (Aga Magéra Difúra. O no?) "Aga Magéra Difúra - Dizionario delle lingue immaginarie", di Paolo Albani e Berlinghiero Buonarroti è appena uscito da Zanichelli (lire 48.000 mila, e ben spese). Stavo già scrivendo questa recensione quando sabato scorso L'Espresso n. 43 è uscito con una anticipazione. Che fare, buttare via una Bustina già scritta? Siccome, come sapeva Walter Benjamin, i mezzi di massa vengono fruiti nella disattenzione, chissà a quanti lettori distratti sarà sfuggita quella pagina. E quindi ridondiamo, anche perché si dà il caso che un anno fa io abbia pubblicato un libro sulla ricerca della lingua perfetta, e il tacere di quest'opera (in cui gli autori con grande tempismo sono riusciti a inserire vari riferimenti al mio ultimo saggio) sarebbe stato preso come segno di invidia. Dico subito che l'invidia c'è, e motivata. Nel mio libro avvertivo che mi sarei occupato solo di alcuni fenomeni specifici lasciando da parte altri ghiottissimi argomenti, quali linguaggi glossolalici e iniziatici, divinatori e animali, gerghi, pidgins, linguaggi inventati da bambini, da poeti, romanzieri, medium, alienati, da scrittori di fantascienza, e soprattutto da quelli che si chiamano da almeno un secolo, "les fous littéraires". Ebbene, questo dizionario li riporta e documenta tutti, da Rabelais a Calvino, per non dire dei pazzi, e troverete la lingua del Necronomicon di Lovecraft, il Grammelot di Dario Fo, Borges e Sheckley. La bibliografia è straordinariamente aggiornata, le citazioni puntualmente "up to date" (e la circostanza mi permette il barbarismo). Se si comperano dizionari è per imparare a parlare o a scrivere in una lingua esistente; chi dovrebbe acquistarne uno per capire alcune migliaia di lingue immaginarie? Eppure, anche a chi non voglia corrispondere (coi propri sodali della stessa società segreta) nella Lingua degli uccelli o in Pellucidariano, leggere questo godibilissimo dizionario sarà come navigare con la fantasia sull'atlante, o immaginare di conversare con marziani o siriani. Se vi mettete in poltrona e leggete questo libro di seguito dalla prima pagina all'ultima, siete degli alienati - ma lo sareste anche facendo lo stesso con una Garzantina. Però se leggete spiluccando non vi mancheranno occasioni di grande divertimento. Potrete ripassare la lingua di Balnibarbi in Swift, canticchiare "baubo sbugi nibnga gloffa" nella lingua poetica di Hugo Ball, o "jolifanto bambla o falli bambla" in quella di Marinetti. Ma questo è anche un libro di consultazione, specie per la parte che riguarda gli studi su queste lingue, o la rassegna dei vari linguaggi internazionali ausiliari, come l'Esperanto. E buon per voi se poi ne sarete indotti a creare la vostra lingua personale, come la Markuska inventata da Alessandro Bausani ancora ragazzo. Non si recensisce un'opera di questo impegno senza cercare di far bella figura e identificare qualche assenza, o imprecisione. Per stare al gioco, riterrò allora criticabile che, nella tabella introduttiva, autori come Wilkins appaiano classificati sotto il nodo Pasigrafie. Le pasigrafie sono lingue destinate alla sola scrittura, mentre Wilkins, come d'altra parte si dice nella voce che gli è dedicata, si era preoccupato anche di elaborare una lingua parlabile. Individuo l'assenza non di lingue ma di parole immaginarie che sono diventate proverbiali nelle discussioni dei linguisti, come il "gavagai" di Quine o il "grue" di Nelson Goodman. Alla voce "Schtroumpf" (che è la lingua di quei nanetti blu che in traduzione italiana si chiamano Puffi) manca il riferimento al mio saggio "Schtroumpf und Drang" (apparso prima su Alfabeta e poi nel mio Sette anni di desiderio), dove si analizzano la semantica e la pragmatica di questa lingua. Dolentemente attendo la seconda edizione. Inoltre manca una lingua vera, quella degli indios Aymara, studiata nel Seicento dal gesuita Bertonio, che ancora oggi è da taluni ritenuta così perfetta da poter essere usata come parametro per i processi di traduzione elettronica. Essa sarebbe talmente flessibile e potente che tutto quello che può essere detto nelle lingue esistenti può essere tradotto in Aymara; ma una volta in Aymara non può più essere ritradotto in alcuna lingua nota. E questa caratteristica di "buco nero" fa dell'Aymara una lingua quasi immaginaria. Però, se non me la segnalava quasi in dirittura d'arrivo l'amico Maurizio Gnerre, l'avrei ignorata anch'io. Poi questa estate a Buenos Aires ho trovato in una libreria antiquaria tutte le opere del Bertonio, che non avevo mai visto su alcun catalogo. Ma - in quel paese dove ufficialmente un peso vale un dollaro, ma ciò che a New York costa due dollari lì costa quattro pesos - la somma che chiedevano era spropositata. Così, come in una storia di Borges, i misteri della lingua Aymara rimangono celati tra Florida e Corrientes. L'Espresso, 4 novembre 1994, p. 242.
(*) Ne Il pendolo di Foucault (Bompiani, Milano, 1988) di Umberto Eco s'incontra una sorta di litania demoniaca, una
parodia di lingua semitica: "Kuabris Defrabax Rexulon Ukkazaal Ukzaab Urpaefel
Taculbain Habrak Hacoruin Maquafel Tebrain Hmcatuin Rokasor Himesor Argaabil
Kaquaan Docrabax Reisaz Reisabrax Decaiquan Oiquaquil Zaitabor Qaxaop Dugraq
Xaelobran Disaeda Magisuan Raitak Huidal Uscolda Arabaom Zipreus Mecrim Cosmae
Duquifas Rocarbis" (p. 109) [questa nota è mia].
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