Il
vero problema, almeno per me che da qualche tempo sto vivendo una fase, diciamo
così, «aleatoria», ovvero contrassegnata da una certa precarietà, è come si
possa riuscire a concentrarsi, a pensare con il dovuto impegno solo a quella cosa là e nient’altro, senza farsi
sviare e corrompere dalle distrazioni che fatalmente incombono da ogni parte.
La
mia sensazione è che ci siano troppe distrazioni in giro, troppi segnali
fuorvianti, troppi richiami, trabocchetti, attrazioni impreviste, flash che si
accendono all’improvviso e ti distolgono da quella cosa là, che uno alla fine, per quanto s’impegni, non fa a tempo a
mettersi al lavoro che subito, patatrac, la distrazione lo assale, non gli dà
tregua e lo porta inesorabilmente da un’altra parte, una parte che non avrebbe
intenzione di seguire, di assecondare, che sta altrove, in direzione opposta
dei propri scopi o comunque lontano quanto basta per distrarsi e perdere di
vista quella cosa là cui aveva deciso
di dedicarsi, che era il suo unico obiettivo, prefissato in partenza.
Perché
a parole sembra facile mantenere la barra dritta, non avere tentennamenti,
cedimenti, sembra facile evitare gli scivolamenti laterali, debordanti, ma
nella realtà non è così, per nulla; al contrario risulta estremamente difficile
non distrarsi, e questo dipende dal fatto che le distrazioni sono sempre in
agguato, non demordono mai e minano la nostra capacità di raccoglimento. E non
c’è da stupirsi perché il mestiere della distrazione, l’ontologia stessa della
distrazione è non farti restare per troppo tempo appassionato a quella cosa là e basta, la distrazione è
bravissima nel farti baluginare davanti alla mente altre cose, altre finalità, come
uno specchietto per le allodole.
È
anche vero, se vogliamo essere sinceri, che io mi distraggo facilmente, sono
portato per natura alla distrazione, questo è indubbio, perché in fin dei conti
mi piace farmi distrarre, credo di essere felice, di godere se la distrazione
prende il sopravvento, il che significa, detto in altri termini, che mi piace
perdere tempo, trastullarmi, gingillarmi in altre cose che non siano quella cosa là che al momento dovrei
affrontare, su cui dovrei concentrarmi, mentre sempre più spesso mi succede,
almeno in questa fase per me, come dicevo, «problematica», di trovare una serie
di scuse che io stesso, lo so bene, mi creo, mi imbastisco volutamente allo
scopo di rimandare il momento in cui lasciar perdere tutto e pensare solo e
esclusivamente a quella cosa là.
Ci
sono delle pagine molte belle nello Zibaldone
di Leopardi dedicate proprio al problema della distrazione connesso a quello
della dimenticanza, del piacere, della felicità, della persuasione, e forse
quella cosa là, come la chiamo io,
non è escluso si riferisca a uno studio sul concetto di distrazione in
Leopardi, ma poi neanche a farlo apposta, vedete, mi sono distratto e ho
cominciato a parlare in modo un po’ vago, fumoso delle distrazioni, delle
distrazioni in generale, del potere ipnotico di allontanamento che le
distrazioni hanno, del loro potere di sviamento, di induzione alla fuga in un
altro contesto, in un altro quadro di riferimento diverso da quello che
all’inizio avevo pattuito con me stesso e volevo onorare. Sì, in questo caso la
parola «onorare» è proprio quella giusta perché il non farsi distrarre è un
atto di volontà che mette in gioco il tuo onore di studioso.
Insomma
voglio dire che la distrazione simboleggia l’abbondano improvviso della nave,
dove la nave metaforicamente sta per quella cosa
là (leopardiana?) che ti eri impegnato a prendere in considerazione e a non
mollare fin tanto che, nei limiti del possibile, non l’avessi esaurita nella
sua esplicitazione, non dico completa (l’idea di completezza è quanto mai effimera),
ma almeno soddisfacente.
Cartesianamente
potrei affermare: «Mi distraggo, dunque sono», e in qualche modo sarebbe, anzi
è la verità, perché nella distrazione io trovo un complemento, una rimessa in
carreggiata, per quanto irrisolta, delle mie azioni, qualunque esse siano,
intellettuali o fisiche. Qualunque cosa intraprenda, sopraggiunge sempre un
punto di rottura rappresentato dalla distrazione che interviene a modificare il
corso delle mie attività o dei miei pensieri, che si pone, o meglio si frappone
come scarto, spostamento, trasloco in un altro luogo mentale, in un’altra
dimensione riflessiva.
Il
tragico è che se io mi accorgo dopo un po’ che non mi sto distraendo allora
comincio a preoccuparmi, a stare in ansia e mi domando angosciato: «Perché
ancora non mi sono distratto? Che mi sta succedendo?» Dopo di che la maglia
comincia a allargarsi, a cedere, e il fatto stesso d’interrogarmi sulla mia
momentanea non-distrazione è fonte dell’approssimarsi, incombente e
inarrestabile, di una distrazione che ancora una volta drasticamente mi
allontana da quella cosa là.
Questo testo è uscito su
il
Caffè illustrato, 66-67, maggio-agosto 2012, pp. 6-7.
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