POSTFAZIONE
al libro di racconti
Sedici vite
di 
Diego Fontana
Il Filo, Roma, 2006

 Per chi si avventuri dentro la struttura dei racconti di Diego Fontana (in sigla D.F.), esistono vari indizi che sembrano (dico sembrano) portare dritti dritti verso un approdo di tipo minimalista.
 Di quel minimalismo caro ai nipotini di Hemingway che, «con strenua attenzione ai segmenti minimi dell'esperienza,» - come recita canonicamente la voce che li riguarda nella Garzantina Letteratura - descrive «l'opaca realtà della vita nelle piccole città americane e il malessere delle grandi metropoli, lo squallore quotidiano di famiglie disgregate e di personaggi senza radici, inariditi e annoiati, i drammi della solitudine, dell'alcol e della droga, l'amore automaticamente svilito in sesso desolato e sordido». 
 Fra questi indizi, o presunti tali, troviamo in evidenza, tanto per cominciare, la forma breve della narrazione, che non è una scelta facile da amministrare. Perché la brevità in letteratura possiede ritmi del tutto particolari, regole ardue, dosaggi ed equilibri alchemici di non facile conquista: in poche righe devi essere in grado di condensare, di consumare atmosfere, passioni, deliri, filosofie di vita, ma soprattutto devi saper offrire un senso adeguato al non detto, all'inespresso, all'allusivo. Come ne Il dinosauro di Augusto Monterosso, celebre e mostruosamente breve racconto la cui forza narrativa, per quanto racchiusa nello spazio ristretto di poche parole - «Quando si svegliò, il dinosauro era ancora lì» - non si esaurisce in esse, ma va ben oltre.
 Di minimalista in D.F. c'è indubbiamente anche il tratto di un linguaggio scarno e laconico, lo stile asciutto che si limita all'essenziale, senza artefici, ammennicoli retorici e manierismi. Un linguaggio quasi colloquiale, in alcune pagine diaristico, da «flusso di coscienza semicontrollato» come dice lo stesso D.F.
 E poi, se ancora non bastasse, c'è un'ammissione esplicita, per quanto fugace, da parte di D.F.: un riferimento chiaro al minimalismo, là dove ne Il brucaliffo (termine inventato da Lewis Carroll), l'io narrante del racconto accenna a uno dei maestri di quella corrente letteraria: Raymond Carver.
 Infine, sempre ne Il brucaliffo, affiora e prende corpo una specie di «minimalismo visivo», con il corpo delle lettere che via via si riduce fino a rendere illeggibile la scrittura, un po' come accade, tipograficamente parlando, alle parole che impallidiscono al termine della pagina 31 di quel formidabile e dissacrante Non libro (1970) di Zavattini.
 Insomma, tutto in apparenza sembrerebbe tendere e propendere verso l'immagine di un D.F. minimalista, anche se il suo è un minimalismo privo di tinte cupe, di contrasti laceranti e crudeli.
 Tuttavia, a guardare bene, le cose stanno diversamente. C'è dell'altro nei racconti di D.F.
 I racconti di D.F. sono attraversati da un candore che sfiora la perfidia, da un quid di affabulazione surreale (La confutazione del protocollo Rubestain), dai risvolti di un gioco condotto sull'incerto confine che separa verità e finzione (Storia); c'è persino lo scarto di un barlume di comicità paradossale (Quel giorno che il mondo stava per finire), una tensione seducente verso un qualcosa d'imprevisto che può accadere da un momento all'altro e che incombe felicemente sul plot, tenendo in allarme il lettore.
 E allora? E allora lo ammetto, forse mi sono sbagliato. Il minimalismo non c'entra niente con i racconti di D.F. È un'attribuzione impropria, semplicistica. 
 A questo punto, per rimediare alla brutta figura, mi appello ai lettori giunti fin qui: fate finta che io non abbia scritto niente, provate a immaginare che lo spazio riservato alla postfazione sia diventato improvvisamente bianco, dopo la stampa, anche se con una simile richiesta, lo so bene, uno potrebbe credere che io voglia fare il verso al finale di un racconto alla D.F.

                                                                                                                           Paolo Albani
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