Paolo Albani
Si è
discusso molto, non solo fra gli addetti ai lavori (poliziotti, investigatori
privati, giornalisti di cronaca nera, scrittori appassionati del genere
poliziesco), sulla possibilità di compiere un delitto perfetto. Un delitto di cui non venga mai scoperto
l’artefice. Un delitto che, per le modalità di esecuzione, resti irrisolto. Un
mistero. Per realizzare un delitto perfetto devono essere
soddisfatti alcuni requisiti, fra i più importanti: 1. la mancanza di movente; 2. un alibi di ferro; 3. la scomparsa dell’arma del delitto; 4. il non ritrovamento del cadavere
dell’assassinato. Due giorni fa, prima di coricarmi, sono stato l'artefice di un crimine di
cui mi sento orgoglioso, che ha provocato, come si vedrà (risvolto di non poco conto),
una soppressione incruenta. Credo lo si possa definire senza alcuna forzatura un
delitto perfetto, eseguito in piena regola.
Ecco come si sono svolti i fatti. Sono nella mia stanza da letto, solo, in pigiama, dopo una
giornata abbastanza noiosa, fotocopia di tante altre giornate uguali a questa. Non
riesco a prendere sonno. Nemmeno la lettura di un libro mi attrae. Sono nella
classica posizione di quello che – intristito e privo di ogni stimolo – guarda fisso il soffitto, sdraiato
sul letto. Appena un filo di luce esce dall’abatjour che sta sul comodino di
destra. Come ogni sera prendo due pasticche di valeriana. È un’abitudine che ho
ereditato da mia madre. Sono molto stanco. Non connetto perfettamente. A questo punto succede qualcosa d'inaspettato. Un impulso
fuori controllo. Mi mancano le forze per gestirlo. Ho una sola giustificazione a mia discolpa:
lo stato di debolezza fisica e morale in cui sono sprofondato. In breve, quello che sto per confessarvi è un omicidio, forse
il più odioso degli omicidi che si possono commettere. Spero mi crediate
sulla parola, del resto non ho nulla da nascondere. La verità, difficile da
accettare, è che – senza pensarci su, quasi preso da un raptus – HO AMMAZZATO IL TEMPO. Una frase convenzionale?
No, l’ho fatto davvero, fisicamente, con le mie mani. In un gesto incontrollato,
l’ho colpito con la furia di un demone nel punto più vulnerabile, il suo tallone d’Achille.
L’ho fatto sul serio, e non – come si potrebbe intendere nell’accezione comune del
linguaggio – per ingannare l’attesa. È stato un attimo. Nessun movente, solo un gran senso di noia. E che movente può
essere mai la noia? Quale giuria di un tribunale riconoscerebbe che si può indurre
qualcuno, raggirandolo, a commettere un delitto per noia? Si è mai sentito di un individuo
condannato per mancanza d’interessi nella vita? Per assoluta (e dissoluta) dipendenza
al grigiore del tedio? Ci tengo a precisare che quando ho
ammazzato il tempo, io in pratica non ero lì, è come se non fossi stato
presente. Ero smarrito, letteralmente
fuori di me. Per quella sera, qualora il commissario dovesse chiedermelo
(è nelle prerogative delle sue funzioni d'investigatore), ho un alibi
di ferro. Camminavo su e giù nella mia camera, da solo, come ho già
detto, ma
allo stesso tempo non potrei giurare di essere stato davvero lì,
esitavo, mentalmente mi trovavo lontano da quel luogo – direi
al commissario, pregandolo di mettere a verbale con esattezza le mie
parole, senza travisarle.
A volte negli interrogatori succede che uno rilasci una certa versione
dei
fatti e che dopo, sulla carta, trascritta da un poliziotto che batte a
macchina
alle spalle del sospettato, ne salti fuori un’altra, completamente
diversa,
modificata. Forse ero in preda a un effetto di sdoppiamento. Chi può
dirlo? C’ero e non c’ero. Comunque nessuno ha assistito alla scena, quindi nessuno
può testimoniare. E l’arma del delitto? In questo caso
l’arma del delitto è
metaforica, impalpabile. Il tempo si uccide per consunzione, non c’è
bisogno di
strangolarlo, usando cordicelle o calzamaglie, pugnalarlo o sparargli a
bruciapelo o colpirlo sulla testa con una statuetta. Non c’è alcun segno
d’arma
da fuoco o di colluttazione sul tempo. Nemmeno un graffio o un livido.
Non gli
ho torto un capello. È un dato di fatto. Nella mia stanza non c’è
traccia di una
sola di goccia di sangue, né di un dito amputato né di pezzetti di
cervello sparsi
qua e là. È tutto al suo posto, le mie ciabatte affiancate sotto il
letto, come
le allineo ogni sera, la camicia e i pantaloni riposti sul servo muto,
il portafogli
e le chiavi al centro del cassettone. Nella stanza non c'è un filo di
polvere, tutto è
perfettamente in ordine – i mobili, i due tappetini di canapa, le sedie,
i quadri alle pareti, uno specchio rettangolare appoggiato al muro, la
zanzariera – come l’ha lasciato la mia domestica, quello stesso
pomeriggio
in cui è venuta a fare le pulizie da me. Dopo aver ammazzato il tempo, ho un capogiro, poggio la testa
sul cuscino e mi appisolo. Chiudo gli occhi e piano piano, mentre cado in un sonno catalettico
(dovuto alla valeriana), mi resta qualche secondo per riordinare le idee e
riflettere sul fatto che il “corpo” del tempo – il suo cadavere – non è rintracciabile
da nessuna parte. Con il tempo tutto svanisce. Ora è qui, un attimo dopo non c’è
più. Svapora. Passato, presente, futuro combaciano e si respingono. Quasi si
annullano. Il corpo del reato non esiste. Gli inquirenti non lo troveranno mai.
Non hanno il benché minimo indizio. Il caso sarà archiviato. È il delitto perfetto.
giugno 2021 _________________________________________
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