Paolo Albani
SU ALCUNE FIGURE
MINORI
DI ASSASSINI E DI NON
ASSASSINI
Lo uccisi in sogno, poi non potei far altro
che
sopprimerlo sul serio. Inevitabilmente.
Max
Aub
Il serial killer della Miglioretta
Per quasi tre anni uno spietato omicida seminò il terrore
fra gli abitanti della Miglioretta, un quartiere popolare di ***.
L'uomo
ammazzava le sue vittime, tutte casalinghe che erano arrivate a
collezionare
10.480 punti facendo la spesa alla COOP della Miglioretta, con una
tecnica
atroce: le strozzava usando del filo di ferro, dopo averle cosparse di
pomodori pelati e torturate con un cavatappi; alla fine lasciava sul
luogo
del delitto - ogni volta la cucina della casalinga assassinata - una
scritta
rossa, tracciata su una parete con una bomboletta spray, che diceva
beffardamente:
«La COOP sei tu».
L'uomo, un sessantenne originario di Rotello, un piccolo paese
del Molise, capelli rossicci raccolti in un codino, venne preso dentro
un casolare abbandonato a pochi chilometri da ***, nella più
classica
delle operazioni di polizia, dopo una violenta sparatoria con i
carabinieri.
Gli investigatori arrivarono a lui, che lavorava come addetto
alle casse della COOP della Miglioretta, perché scoprirono che
il
direttore di un'agenzia della Banca Nazionale del Lavoro gli aveva
rifiutato
un prestito di 10.480 euro.
L'assassino malinconico
Il rappresentante di libri Alfredo Bonaccini di Camerino, un
omone dagli occhi tristi e le mani grassottelle e larghe come le
estremità
di una pala da fornaio, salì alla ribalta della cronaca nera per
una serie di delitti efferati. Il primo avvenne in una canonica:
Bonaccini
schiacciò il cranio a un sacerdote tenendogli premute sulle
tempie
due bibbie stampate in edizione di lusso e ancora intonse; un'altra
volta
uccise la proprietaria di un ristorante, una signora non più
giovane
con problemi di udito, sequestrata dentro un magazzino sotterraneo per
una notte intera: la sfinì urlandole frasi oscene
alternativamente
nell'orecchio destro e in quello sinistro.
Bonaccini venne soprannominato dalla stampa l'«assassino
malinconico».
Dopo ogni delitto dicono infatti che si mettesse a piangere a
dirotto, a frignare come un bambino cui è stato tolto di mano un
giocattolo, e che venisse preso da una profonda mestizia, uno
struggimento
che lo portavano a fare lunghe passeggiate da solo in luoghi deserti e
a scrivere poesie sulla «natura che non mantiene le sue
promesse»
e sulla caducità della vita.
Con la poesia L'amica che non mi abbandona mai, dedicata
al tema della solitudine, mentre già era in carcere,
arrivò
secondo al premio letterario «Città di Camerino»
indetto
dalla locale Associazione amici di Ugo Betti.
La signora omicidi dei poveri
Nella sua dura requisitoria, la pubblica accusa definì
Maria Luisa Verlani, un'anziana affittacamere dai modi gentili che
partecipò
a tutte le udienze sfoggiando una mise da attricetta di film
muti
e un sorrisino svampito sulle labbra, «la signora omicidi dei
poveri»,
alludendo al titolo del famoso film di Mackendrick.
Nel giro di pochi anni, a breve distanza l'uno dall'altro, la
Verlani uccise cinque pensionati cui aveva affittato per una cifra
modesta
una cameretta nel suo appartamento, al secondo piano di uno stabile che
di giorno ospitava solo uffici, in via Palmiro Togliatti 27 nella
periferia
est di Genova.
I poveretti, età media sull'ottantina, se ne andarono
tutti di notte, in sonno, apparentemente di morte naturale: il referto
del medico parlò in tutti e cinque gli episodi di arresto
cardiaco.
Di fronte a quelle morti in apparenza avvenute con le stesse
modalità, la polizia si insospettì e mandò a casa
della Verlani, a fare da esca, un anziano poliziotto in pensione, un
siciliano
cazzuto che fu contento di sentirsi di nuovo utile alla
giustizia.
Una notte, il poliziotto-esca, mentre fingeva di dormire sotto
le coperte, ancora vestito per essere pronto a ogni evenienza, si
accorse
che la maniglia della porta di camera sua si era mossa; vide poi una
figura
introdursi lentamente dentro la camera e nella penombra distinse il
profilo
della Verlani che, in vestaglia, senza fare il minimo rumore, si stava
approssimando al letto. A questo punto, premendo il bottone di una
peretta
bianca ciondolante dalla testata del letto, il poliziotto-esca accese
di
scatto la luce e si trovò davanti la donna che, colta di
sorpresa,
lanciò un urlo.
Nella mano destra, tenuta leggermente in alto, la Verlani
stringeva
un sacchetto di carta, di quelli della spesa, gonfio d'aria che, con
ogni
probabilità, intendeva far scoppiare vicino alla faccia
dell'uomo.
Quando il giudice, sollevati gli occhiali sulla fronte, puntando
lo sguardo dritto verso l'imputata, in un gesto che voleva significare:
«Mi raccomando, rifletta bene prima di rispondere», le
domandò
perché avesse ucciso quei poveri pensionati, la Verlani,
ostentando
ancora una volta il suo disarmante sorrisino, disse lapidaria:
- Erano vecchi, signor giudice.
Un luogo comune
Si dice che l'assassino ritorni sempre sul luogo del
delitto.
Augusto Giraldi ci tornava sempre sul luogo del delitto,
perché
era un nostalgico e gli piaceva rivisitare i posti dove aveva ammazzato
qualcuno. Ora che poteva goderseli in uno stato d'animo disteso, senza
più il batticuore, le tensioni, per altro giustificate, che si
accumulano
quando uno si appresta a compiere un delitto, gli piaceva riassaporare
l'atmosfera di quei luoghi, il profumo di vissuto che emanavano per
lui.
Augusto Giraldi però non ci tornava da solo sul luogo
del delitto. Aveva l'abitudine di portarsi appresso tutta la famiglia,
la moglie, i figli, la suocera, qualche cugino e anche il suo yorkshire
terrier, nonché, in via eccezionale, la signora che ogni
mercoledì
gli faceva le pulizie in casa.
Nei giorni festivi, quando non andavano a scuola, ci portava
pure i nipotini a cui spiegava i particolari del delitto, cosa
aveva
fatto e come l'aveva fatto, con parole semplici, senza
tralasciare
nulla. «Per entrare nell'appartamento», diceva ai nipotini,
«il nonno ha dovuto rompere un vetro, ecco, quel vetro
là»,
indicando dalla strada una piccola finestra a una sola anta che dava su
un cortile. «Poi si è nascosto dietro una tenda e
quando...»
Se il crimine era avvenuto all'aperto, dentro un bosco o in un
parco pubblico, Giraldi tornava lì con la sua famiglia e gli
amici
più intimi per farci un picnic. Prima di iniziare il pranzo,
chiamava
tutti a raccolta intorno a sé e illustrava in modo dettagliato
la
dinamica dei fatti. Era bravo a descrivere i suoi delitti, ci metteva
così
tanto sentimento e partecipazione che sembrava raccontasse la trama di
un film poliziesco.
Verso l'imbrunire, sistemati nel bagagliaio delle macchine i
tavoli da camping, le seggioline pieghevoli e tutto quanto era servito
al picnic, i presenti, spronati dal Giraldi, che era un tipo precisino,
un fanatico dell'igiene personale e del rispetto per la natura,
raccoglievano
lo sporco da terra e dopo averlo gettato negli appositi contenitori se
ne ritornavano a casa, felici.
Qualche volta Giraldi organizzava dei veri e propri pellegrinaggi
sul luogo del delitto, portandosi dietro un bel po' di gente, fra cui
le
amiche e gli amici dei figli e alcuni colleghi di lavoro della moglie,
tutta gente fidata, e poi ancora, come se non bastasse, dei
parrocchiani
della sua chiesa e dei volontari che, insieme a lui, prestavano
servizio
nella Protezione Civile.
In questi casi di maggiore affluenza Giraldi prendeva a noleggio
due, tre pulmini e si muniva di un megafono perché tutti
sentissero
bene la ricostruzione del delitto, e non avessero a lamentarsi della
gita.
Fin da piccoli i figli del Giraldi si divertivano un mondo a
sentire le storie delittuose del padre. Il fatto poi di sentirsele
raccontare
lì, sul luogo in cui erano accadute o comunque nelle vicinanze,
li eccitava moltissimo. Così protestavano se Giraldi manifestava
segni di stanchezza e il desiderio di prendersi una pausa.
«Dai, papà, non fermarti», lo riprendevano
spalleggiandosi l'uno con l'altro, «raccontaci ancora una volta
di
come hai ucciso quel postino di Verona. Su, fai il bravo, non farti
pregare».
[Una versione ridotta di questo testo è uscita nella
rubrica
"Giallo comico", a cura di Graziano Braschi e Mauro Smocovich, della
rivista
on line Thriller
Magazine].
Il circolo vizioso dell'assassino di professione
Remo Cardinali iniziò a uccidere che era
giovanissimo.
Cominciò a farlo quasi per gioco, come un hobby, tanto
per vincere la noia, perché non sapeva come ingannare il tempo.
Poi ci prese gusto, intensificò le sue prestazioni, gli
ingaggi criminosi si moltiplicarono e allora, piano piano, uccidere
diventò
per lui un lavoro, un mezzo per guadagnarsi da vivere, una
routine.
E alla fine riprese ad annoiarsi.
Una nuova indagine del commissario Polidori
Abbagliato da un insopportabile cono di luce, in una stanza
satura
di fumo, l'uomo cercò di prendere tempo. Lo stavano interrogando
da circa quattro ore. Era esausto, respirava con affanno. D'un tratto,
a bassa voce, quasi a volersi liberare di un peso tremendo, disse:
«Lo
sono fin dalla nascita».
A questo punto gli occhi del commissario Polidori brillarono.
Lentamente si aggiustò un lembo della camicia dentro i pantaloni
e si accese una sigaretta, sfilandola da un pacchetto sgualcito che
fece
volare con un lancio da manuale dentro un cestino pieno di cicche.
«Fategli
firmare il verbale e portatelo via» disse visibilmente
soddisfatto
a un poliziotto in borghese; quindi, uscendo dalla stanza, senza
rivolgersi
a qualcuno in particolare, aggiunse: «Bene, abbiamo pizzicato un
altro non assassino».
L'ammissione fatta dall'uomo a seguito di un preciso rilievo:
«L'assassino ha ucciso sempre con la mano destra. Perché
allora
avete firmato con la sinistra? Siete forse mancino?», aveva
fugato
ogni dubbio nella mente del commissario Polidori che stava seguendo il
caso del cosiddetto «macellaio di Otranto».
A capo di una squadra speciale di investigazione cui
spetta il
delicato compito di scoprire i non assassini, di mettere in
luce
il ruolo che non hanno svolto nella dinamica dei fatti
delittuosi,
il commissario Polidori entra in azione subito dopo che l’assassino
è
stato smascherato dagli investigatori.
Le indagini svolte dal commissario Polidori, dirette allo scopo
di creare il vuoto intorno al vero colpevole, di non lasciargli alcuna
possibilità di confondere le acque, rispondono a una logica
ineccepibile:
quanto più ampio è il numero dei non assassini
identificati,
assicurati alla giustizia, tanto più evidente si fa la
responsabilità
del reo confesso.
Quando il caso del cosiddetto «macellaio di
Otranto»,
che aveva fatto a pezzi dieci prostitute e un transessuale brasiliano,
nascondendone i resti in altrettante valigie sotterrate in un giardino
condominiale, fu risolto con l'arresto di un macellaio (vero) che
gestiva
un negozio di carne equina nel centro storico di Otranto, il
commissario
Polidori non perse tempo.
Fece subito attivare minuziose ricerche, pedinamenti,
intercettazioni
ambientali, valutò attentamente i rapporti sulle soffiate dei
confidenti
arrivati sulla sua scrivania, e alla fine dispose il fermo di un certo
numero di sospetti non assassini.
Fra questi Manilo Trovati, un professore universitario di Diritto
Costituzionale, un uomo pio, di grande rettitudine morale, presidente
di
un'associazione cattolica per le adozioni a distanza e di molti altri
enti
a scopo benefico.
Durante il pressante interrogatorio condotto dal commissario
Polidori («Perché non ha mai frequentato il mondo
delle
lucciole?»; «Nella sua abitazione non sono state
rinvenute
tracce di sangue delle vittime. Come spiega questo strano
particolare?»;
«Abbiamo accertato che lei non possiede un seghetto.
Cos'ha
da dire a sua discolpa?»; ecc.), l'uomo cercò di
smarcarsi,
di sottrarsi, per quanto poteva, agli accurati riscontri che gli
venivano
esibiti dando risposte vaghe, sfuggenti.
Tuttavia, dopo sei ore circa di interrogatorio, incalzato e
travolto
dalle domande puntigliose del commissario Polidori, si arrese di fronte
all'evidenza e confessò.
Schedato come non assassino, il suo nome finì nel
vasto archivio del commissario Polidori, dentro una cartellina con su
scritto,
in alto, a pennarello nero: «IL CASO DEL MACELLAIO DI
OTRANTO».
Delitti di carta, 5, novembre 2005, pp. 44-49.
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