UN GRAFFIANTE TAMBUREGGIARE DI ALLITTERAZIONI Postfazione al libro di
D'Avec,
Oblò,
Cosa si vede (o si crede di vedere) dentro l’Oblò di Jean-Charles d’Avec Sommeils, nome altisonante che incute all’istante sulla cute del lettore un certo timore, ma anche il sospetto che sotto sotto, al di là del nome, si celi l’identità di un altro poeta, inconsueta voce, preso dal diletto prezioso del dialetto (milanese), oltre alla figura di uno studioso di architettura? Il fatto è che prim’ancora di vedere (e di prendere per buoni, e non per cloni, i pensieri che, anche in fieri, si rincorrono sul ring della pagina), si sente qualcosa dentro l’Oblò, a iosa, qualcosa che ricorda la scocca di una filastrocca generosa. Nei versi dell’Oblò si ascolta divertiti molta buona musica, i pruriti delle parole, prole di una famiglia di giochi acustici che s’accendono come fuochi d’artifici in una festa che fa perdere la testa. Un suono melodioso risuona, quasi corda unisona, nel poetico sfottò dell’Oblò. Il plot procede in un incedere spassoso, rondò effervescente, felicemente sfizioso che si abbandona sulla sponda di un graffiante tambureggiare di allitterazioni, e di altrettante allettanti diversioni verbali (e mentali), e parimenti di accostamenti linguistici insoliti, di slittamenti al limite del surreale e del preterintenzionale, di scarti letterali e d’infarti ludici per niente plateali. L’Oblò si nutre di significati attesi, di iati aperti verso reperti di mondi in cui è facile confondersi, ma pur sempre tondi e non secondi a nessuno quanto a fantasia e frenesia di bisticci di parole e di feticci da svuotare nel presente, di calibrati calembour. È un tour di giravolte metaforiche, l’Oblò, a volte còlte con il gusto giusto per l’azzardo, il parto di capriole in versi, cosparsi - per dirla con l’immortale Montale - di «spruzzi e sprazzi» ironici e vulcanici. Comunque lo si ascolti l’Oblò è una miniera foriera di argutezza comica che possiede la virtù empatica di farci riflettere con leggerezza sulla nostra illimitata finitezza, ossimoro capace di suscitare in maniera sagace un’ebbrezza salutare. Se dunque l’Oblò ci attizza è perché si caratterizza da poesia sonora, testo che onora il fascino delle rime per l’orecchio, specchio dell’abilità di un costruttore di lazzi, già tenace «corruttore di bozze», e di spiazzanti motti, e di botti che sbottano in frasi nutrienti, e di sapienti definizioni come quella - bella - per cui i calembour sono «borborigmi / nel magma / dei sintagmi». * * *
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