Paolo
Albani
STRINGERSI IN UNA PAROLA
Frasi come
«Passami il coso che è sul coso,
per favore» oppure «Ho visto il coso che cosava da solo
l’altra
sera» ricorrono con una certa frequenza in particolari strati di
popolazione adulta.
La sostituzione di una parola di cui si è scordato
suono e morfologia con il termine generico «coso» è
un fenomeno che non ha mai avuto una sistematizzazione rigorosa nel
campo
degli studi linguistici. Adesso viene a colmare la lacuna, almeno in
parte,
lo studio di un glottologo dell’Università di Lione,
Jérôme
Pauchard, che affronta il problema nel libro intitolato Essai sur
la
réduction linguistique à truc, Lyon,
Méquignon-Marvis,
1999.
Se Pauchard non ha dubbi sulla natura fisiologica del
«linguaggio del coso» riconducibile ad una forma di afasia
transitoria, che si origina nell’area posteriore dell’emisfero
cerebrale
sinistro, detta zona di Wernicke, più complessa è a suo
giudizio
la ricostruzione dei meccanismi che presiedono alla scelta della parola
«coso» (truc) come sostituto efficace per le parole
smemorizzate. Perché «coso» e non
«pâté»
o «gallina» (poule) o «vattelappesca» (qui
sait) od altre ancora, si domanda Pauchard.
La spiegazione investe, da un lato, convenzioni di tipo
culturale: se il francese si appoggia al termine «truc», in
altre lingue vengono usate parole differenti: coso in italiano,
thingummy
in inglese, dingsda in tedesco, eso in spagnolo,
ting
in danese, ecc. Dall’altro Pauchard fa appello a criteri di risparmio
(leggi
brevità) e alla possibilità di flettere o coniugare il
termine
che funge da sostituto universale: ad esempio l’italiano
«coso»
diventa in alcuni enunciati cosi, cose,
cosare, cosato,
cosando.
Pauchard ha riscontrato poi che la sostituzione è
maggiore di fronte a parole sesquipedali o aventi un alto numero di
consonanti
o grafemi che possono rappresentare due suoni; che è più
facile in italiano, lingua ove il fenomeno è molto radicato,
mettere
il «coso» al posto di una parola che inizia con la esse
sorda
/s/, tipo saliera, sapone, senape, sigaro,
anziché di una che comincia con la «effe» o la
«pi».
Dopo aver considerato altri fattori influenti sulla
dinamica
del «linguaggio del coso», come la stanchezza,
l’instabilità
del sistema nervoso, l’alimentazione (per Pauchard esiste uno stretto
legame
tra propensione al «coso» e certi tipi di alimenti
piccanti)
e non ultimo il clima (la pioggia, la nebbia e più in generale
gli
sbalzi di temperatura vengono indicati come concause non secondarie del
fenomeno in questione), il glottologo francese, per verificare la sua
analisi
su un terreno concreto, riporta in appendice alcune storie di grandi cosatori.
Fra le figure esaminate, significativa appare quella del
doganiere Alfonso Gorini, nativo di Biancade, un paesino del Veneto, in
provincia di Treviso. Nel 1989, all’età di 54 anni, senza alcuna
ragione apparente, Gorini cominciò piano piano a sostituire
tutte
le parole, o quasi, con il termine «coso». In certi
momenti,
come risulta dalla testimonianza della moglie Annalisa, Gorini
arrivò
ad esprimersi adoperando con estrema disinvoltura frasi del tipo:
«Il
coso che ho cosato l’altra mattina avrei potuto cosarlo in un solo
coso,
senza cosarmi più di tanto», oppure: «Una cosa
è
cosare senza cattiveria, altra cosa è farlo invece per
cosaggine».
La cosa straordinaria, scrive Pauchard, è che la moglie e i
figli del Gorini, come pure il suo commercialista e il medico di
famiglia,
e un cugino che aveva un appartamento sopra quello del doganiere, si
lasciarono
coinvolgere a tal punto da quel linguaggio che riuscirono in breve
tempo,
non solo a capirlo, ma anche a parlarlo correntemente, intrattenendo
con
il Gorini lunghe e piacevoli discussioni.
il Caffè illustrato, 7/8, luglio/ottobre 2002,
p. 6.
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