LE CONFESSIONI DI ITALIANO Peccati di lingua Biblioteca
Oplepiana, plaquette n. 32
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- Buona serra reverendo. - Salve figliolo. Da quanto tempo non ti confessi? - Francamente non ricordo, reverendo, comunque è da un pacco di tempo, da un Eternit. - Allora dimmi, figliolo, ti ascolto. - Devo confessare un grave peccato, reverendo, un peccato di presunzione, credo. Non sopporto le trasfusioni linguistiche, gli erbori di pronunzia. Sì, quando sento uno che sbadiglia le parole mi viene una rabbia, ma una rabbia che lo manderei dritto dritto in balera. Capisce? Lo so, non è una razione normale, da bravo cristiano, ma è più forte di me, in quei monumenti perdo completamente il contratto di me stesso… - Fammi qualche esempio, figliolo. - Ecco, reverendo, l’altro pomeriggio ero in una pasticcioneria che mi mangiavo un bel cliché alla cioccolata, entra uno e si lamenta per il caldo. Un signore vicino a me interviene: «E allora io che dovevo dire quando lavoravo agli altiforni?» «Sì, va bene», gli risponde il primo «ma quelli sono lavori usurai». Ha detto proprio così: «usurai», capisce? Senza battere miglio, tranquillo. Ma come si fa, dico io, a essere così pignoranti? Quando sento certe fessure macroscopiche, certe lagune culturali mi vengono i brigidini alla pelle. - E tu come hai reagito? - Ho perso le giraffe, reverendo, ho inveito contro il signore degli usurai, l’ho mandato brutalmente al tavolo dicendogli che era uno screziato, che il lignaggio è una cosa importante, che doveva stare attinto alle parole che diceva, meglio se ci pensava due, tre, cento volt prima di aprire bocca. Ecco perché l’Italia va male, ho aggiunto poi aizzando precocemente la voce, perché raschiamo di mandare tutto a catenaccio. L’agente prende dischi per caschi e non se ne accorge nemmeno. Non c’è più derisione… - Vuoi dire religione… - Sì, certo, mi scusi reverendo. Il fatto è che, continuando di questo spasso, si finisce nel cadere in dei laghi comuni, ma nessuno si scurisce più di tanto di fronte a questo declivio pauroso, a questo prepuzio della lingua. Vedo molta differenza in giro, e tutto questo mi fa premura, un bavaglio disarmante. Uno scrittore che amo molto, Ennio Foiano, che dal nome, credo, fosse di Foiano della Chiana, vicino a Arezzo, la pesava come me in quanto a deiezioni corrette dell’italiano. Lui, Foiano, autore di quel bel libro, Un marchigiano a Roma, se n’intendeva di frasi fratte, era un maestro di battone brevi, fulminanti. - Bene, figliolo, non divoriamo oltre, però. Il tempo stinge, fra poco devo predire una messa. - Io avrei finito, reverendo. - Ego te absolvo, figliolo, eccetera eccetera. Per cancellare il tuo steccato farai questa pertinenza: prima di caricarti a letto, come se fossero le tue brughiere della sera, per due settimane di seguito dirai a voce alta degli scogli da lingua, sai, tipo quelli che recitano: «Trentatré trattini in treno a Trani». Adesso vai, figliolo, e risposati in pace. Glossa William Archibald Spooner (1844-1930), prete anglicano, rettore del New College a Oxford, è famoso per i suoi lapsus costruiti invertendo l’ordine di due lettere o sillabe. Ad esempio, durante un banchetto, nel bel mezzo di un discorso, invece di dire our dear Queen (la nostra cara Regina) gli venne l’espressione our queer Dean (il nostro svitato Decano). Dagli strafalcioni di Spooner deriva il termine spoonerism. Se si apre un dizionario di inglese vi si troverà la parola "spoonerism", accompagnata da questa definizione: «gioco di parole che consiste nello scambio delle iniziali di due termini». È come se in italiano si dicesse CACCIA FURIOSA invece di FACCIA CURIOSA. Spooner era talmente distratto che una volta incontrò un collega e gli disse: - Venga a cena, conoscerà Stanley Casson, il nostro nuovo professore. - Ma Casson sono io!, rispose il collega. - Non importa, venga lo stesso. Il termine ha assunto nel tempo il significato più ampio di svarione linguistico. Riferimenti:
Oplepo, Le confessioni di italiano. Peccati di lingua,
Biblioteca
Oplepiana n. 32, Edizioni OPLEPO,
Napoli,
2011, pp. 10-11.
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