Paolo Albani
IL COLLEZIONISTA  DI FRASI OSCURE

 
Sul tema dell’oscurità della Letteratura, quella con la L maiuscola, si potrebbero spendere fiumi (non torbidi) di parole. Qui, però, ci accontentiamo di richiamare un passo di Giorgio Manganelli, tratto dall’Elogio dello scrivere oscuro, là dove si dice che lo scrittore, avendo «a che fare con una qualche forma di caos», è costretto a lavorare senza capire «a fondo quello che ha scritto».
 Non crediamo sia improprio sostenere che lo spirito della maliziosa osservazione manganelliana ha trovato una sponda ricettiva nell’affluente (tanto per restare fedeli all’iniziale metafora acquifera) prosa di Franco Ristori, autore de Il solipsista (Milano, Rubini Editore, pp. 198, Euro 18,00), romanzo bislacco, e quanto mai dissennato fra quelli letti negli ultimi tempi.
Ne Il solipsista , che ha in esergo la frase di Baudelaire: «C'è una certa gloria nel non essere compreso», Ristori ha messo mano senza pudore ad un’insolita collezione di brani oscuri della letteratura, solo quella contemporanea per fortuna, risparmiandoci sull’argomento insane rivisitazioni del passato che avrebbero reso la lettura ancora più ardua e disagevole.
 Ma veniamo all’esile trama del romanzo.
Il protagonista, Gerardo Sirianni, originario di Placanica, un paesino nell’entroterra della costa ionica della Calabria, è un giovane professore di lettere che insegna in un liceo milanese, un «anarco-pensatore», come lui stesso, prendendosi troppo sul serio, si compiace di definirsi, animato da un’inclinazione smodatamente soggettivistica, egocentrica verso gli umori della vita, atteggiamento con cui si guadagna, fra i suoi studenti, l’ironico appellativo di «solipsista».
Trasferitosi al nord insieme alla famiglia, e finiti gli studi universitari, Gerardo viene folgorato sulla via di Damasco della critica letteraria. Un giorno, dopo aver letto in un racconto di Tommaso Landolfi una poesia composta di parole inventate, inizia a raccogliere, annotandole scrupolosamente su un quadernetto, le frasi più incomprensibili, astruse, ermetiche degli scrittori che ama, e di altri ancora, frasi che gli serviranno (così almeno spera) per scrivere un saggio che intende pubblicare sulla rivista Letteratura Letterature.
 Giorno dopo giorno, in una babelica mescolanza di ritagli, il quadernetto degli appunti di Gerardo si riempie di stralunati esempi di oscurità (o meglio oscenità) letterarie.
Sul primo foglio che porta la data del 23 marzo 1998, in alto, si legge:

La mia moglie era agli scappini, il garzone scaprugginava, la fante preparava la bozzima... Sono un murcido, veh, son perfino un po' gordo, ma una tal calma, mal rotta da quello zombare o dai radi cuiussi del giardiniere col terzomo, mi faceva quel giorno l'effetto di un malagma o di un dropace!

e poi, appena due righe sotto, irrompe un altro sproloquio:

Oggi traneuguale per indottone consebase al tresico imparte Montecitorio per altro non sparetico ndorgio, pur secministri e cognando, insto allegò sigrede al presidente interim prepaltico, non manifolo di sesto, dissesto: Reagan, si può intervento e lo stava intemario anche nale perdipiù albato - senza stipuò lagno en sogno-la-prima di estabio in Craxi e il suo masso nato per illuco saltrusio ma non sempre.

 Il 5 aprile dello stesso anno Gerardo trascrive, in una calligrafia limpida e vigorosa, un nuovo singolare frammento:

È proprio siccome circassi io a mal d’esempio da tamigiaturga di prossenetarti a te. Ostrigotta, ora capesco! Mairavrei credutala così bassenta. Non l’hai scorta al suo varone, a dondolarsi su un vacillavimine, con un foglio spartito in samassi di sigle, come chi suonasse chissà quale anienia, su un villanacello senza groppa né lanciando il nekkerelogio, per arre ed ore, lo spunto, il mariggio e la bellandata, coi fatti in altro stato, la gola alla larga speloncata, con sbrindelloncini per dentispazzini, sciuperandosi in fame solitaria, ingiusto il decreto di corte marziale, la zazzera irta per mella ventura, le frangie cascantigli giù sugli uocchi, agognizzando la vista stellata, e i gambi di colza e le mute ondine, i villi nuovi, le civette vecchie, e tutta la meschia che gli valse Parogia.

Nei giorni successivi, il quadernetto si arricchisce di altri testi ugualmente caotici, ingarbugliati. Fra questi, una breve poesia, a fianco della quale, in stampatello, Gerardo evidenzia, cerchiandola con la biro, la parola «SENSUALE»:

sgrondone leucocitibondo, pellimbuto di farcime,
la tua ficalessa sbagioca e tricchigna tuttadelicatura
la minghiottona: ohi sottilezze cacumini torcilocchi
presticerebrazioni, che ti strangosci polpando mollicume,
arcipicchiando la vocaciocca passitona, la tua dolcetta
che allucchera divanissimamente il pruggiculo;
cagoscia vizzosaggini il bàrlatro grattoso:
la tua merlosa irabondaggine e vita

E ancora, preceduto dall’interrogativo «Che fanno i morzacacchi, i gloriconi?», appare, non meno illeggibile e misterioso degli altri, un ulteriore deragliamento di significati:

Recusia estemesica! Altrinon si memocherebbe il persuo stisse in corisadicone elibuttorro. Ziano che dimannuce lo qualitare rumelettico di sabirespo padronò. E sonfio tezio e stampo egualiterebbero nello Squittinna il trilismo scernosti d'ancomacona percussi. Tambron tambron, quilera dovressimo, ghiendola namicadi coi truffo fulcrosi, quantano, sul gicla d'nogiche i metazioni, gosibarre, che piò levapo si su predomioranzabelusmetico, rifè comerizzando per rerare la biffetta posca o pisca.

 Dopo di che, fino all’ultima pagina, il racconto si dipana in una selva di brani sconnessi, impenetrabili, senza un apparente filo logico, ricopiati con estrema cura da Gerardo nel suo quadernetto che, con il tempo, si trasforma sempre più in un mosaico di assurde citazioni che, lette una dietro l’altra, fanno girare la testa.
Appassionato al suo lavoro di copista, come Bouvard e Pecuchet, terminati gli esami di maturità, Gerardo si congeda dai colleghi e dagli amici e trascorre le vacanze estive a casa, da solo, completamente immerso nei libri, molti dei quali presi in prestito alla Braidense, esultando ogni volta gli capita di registrare qualche sentenza minacciosa («ti festerem sul triglio / o sguanoso buggaron») o un saluto divertito («Piri pari trabagghiari ohilì ohilà!») o ancora una tiritera dal sapore esoterico («orka ta kana izera / kani zera tabitra»).
 Il quadernetto, e con esso il romanzo, si chiude con un’effimera canzoncina scandita da ripetute deflagrazioni in U:

Ina vota gh'era in ommu/ Merlommu bestuccu e felidommu./ E l'eiva semenau d'in campu/ De migo panigo/ Besteccu felinigu./ U ghe va la quaia merlaia/ Bestucca felinaia./ A ghe l'ha maniau tuttu./ Cosu fa cust'ommu/ Merlommu bestuccu felidommu?/ U va da u so capiteru/ Merleru besteccu felineru./ Cosa gh'ei u me ommu/ Bestuccu felidommu?

luglio 2003




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