Paolo Albani
LA «CONTRAINTE» 
E I PAZZI LETTERARI

 Nell’ambito dell’esperienza oulipiana la «contrainte» è considerata (vissuta come) uno strumento creativo, una «source de liberté» che amplifica le possibilità di arrivare a soluzioni originali, bizzarre, inattese, imprevedibili: l’essere «costretti» a seguire certe regole induce uno sforzo di fantasia, stimola l’invenzione di percorsi labirintici, di circumnavigazioni acrobatiche del linguaggio. La «contrainte» non restringe l’orizzonte delle strategie narrative dello scrittore, al contrario ne allarga le «potenzialità visionarie», come ha scritto Italo Calvino, risvegliando «in noi i demoni poetici più inaspettati e più segreti».



 
 La visionarietà cui allude Calvino a proposito della scrittura «à contrainte» è una caratteristica che, nel bene e nel male, accomuna in modo dirompente i testi sconclusionati dei cosiddetti «fous littéraires», studiati da Raymond Queneau, una schiera di «paranoici reazionari e chiacchieroni rimbambiti», senza maestri né discepoli, le cui elucubrazioni si allontanano da tutte quelle professate dalla società in cui essi vivono.
L’impresa queniana è apertamente influenzata dall’interesse dedicato al fenomeno dell’alienazione mentale da parte del movimento surrealista che Queneau frequenta fin dal 1924 (e da cui per altro si allontanerà ben presto, insofferente al dispotismo bretoniano). Com’è noto André Breton vede nel malato di mente una creatura che si ritrae e che, con ciò, si ritrova interamente nella sfera dell’immaginario, una vittima della propria immaginazione, che attinge un grande conforto dall’immaginazione («un folle non proverà mai a copiare una mela» afferma Jacques Rigaut per sottolinearne l’energia creativa non realistica) e ne esalta, in uno slancio dai connotati velatamente romantici, il desiderio di rivolta, l’inosservanza delle regole della società borghese, il rifiuto della censura, dell’autorità e della ragione.
Dunque l’affermazione calviniana sul legame «contrainte»-visionarietà può trovare un riscontro stimolante negli scritti dei «pazzi letterari». Ed in effetti, limitando lo sguardo al solo campo letterario, vediamo che alcuni di essi hanno prodotto testi «à contrainte», cosa che non stupisce se, come si è appena suggerito, il rispetto di regole - esplicite o invisibili – si configura come un mezzo che tende a valorizzare la forza visionaria dell’attività letteraria.
Per amore del gioco del classificare possiamo suddividere i «pazzi letterari» che ricorrono all’uso di «contrainte» in due categorie: i «ludo-scrittori» e gli «scrittori di riscritture».
Alla prima categoria appartengono i «pazzi letterari» che a vario titolo impiegano procedimenti linguistici di tipo ludico, come lipogrammi, acrostici e simili. Il gioco con le parole (verbale, visivo e sonoro) è uno strumento maieutico, nel senso che contribuisce a smuovere i «demoni poetici» dentro di noi, come testimonia il fatto che una volta i versi palindromi («in girum imus noctu, ecce ut consumimur igni») erano chiamati «versi del diavolo» per il loro carattere eccentrico e singolare.
Avventurandoci nei repertori classici dei «pazzi letterari», primo fra tutti quello di André Blavier, non è difficile incontrare alcuni di questi personaggi. Ad esempio, nel Petit Livre de poche très pittoresque et des plus curieux, contenant cinq lettres morales et chrétiennes d’un père à son fils; dans la rédaction de chacune d’elles on remarquera l’absence d’une des cinq voyelles de notre alphabet (Paris, Périsse frères, 1854) Jean-François de Mas-Latrie (1782-?) compone cinque lettere lipogrammatiche ed una sesta in cui al contrario viene utilizzata una sola vocale, cioè «la revenente». Mas-Latrie, che si autodefinisce «una delle Muse più scostumate del Lauragais», scrive frasi del genere: «Tremblez, êtres dégénérés et pervers, rebelles envers les décrets et les préceptes célestes; tremblez, penchés d’excès en excès vers les descentes et les ténèbres de l’enfer: le sceptre de fer de l’Éternel est présentement levé!! Le temps me permet, très cher Nérée, d’étendre le texte de cette 5e lettre et de te révéler mes secrètes et ferventes pensées de tendre père terrestre et d’excellent frère céleste en même temps». Un’Apendice [sic] pour le «Petit livre de poche» (Toulouse, impr. de J. Dupin, 1854) contiene «un logogrifo fuori linea di più di 200 versi alessandrini tutti rimanti in if». Nel 1865 La Revue anecdotique consacra due pagine a Jean-François de Mas-Latrie (André Blavier, Les fous littéraires, Paris, Éditions des Cendres, 2000, pp. 980-981).
 Nel 1864 L.A. Caron pubblica a Mirecourt un foglio intitolato Essais carographiques con due quadrupli acrostici, uno dedicato alla Legione d’onore e l’altro alla gloria della Francia (André Blavier, op. cit., pp. 978-979).
 Il numero 241 della Nouvelle Revue Française dell’ottobre 1933 riporta un «Tableau» dedicato alla poesia in Francia in cui si parla, fra gli altri, del poeta «mutualista» Alexander Rey, bibliotecario della «Société fraternelle des protes» di Parigi, nonché rimatore di talento e sostenitore di cause buoniste come la mutualità materna, le case a poco prezzo, la lotta contro le catapecchie, la fuga dalle campagne, ecc. (Alexander Rey, «Poète mutualiste», Bizarre, IV, avril 1956, p. 91). Sfidando i temi più aridi, dopo il 1890 Rey «apporta alle riforme e alle opere nuove, il concorso della sua penna» componendo sonetti, ballate, elegie, odi, rondò, versi quadrati, a forma di losanga o di X, come i seguenti:

ÉLOGE DE LA CAISSE NATIONALE DES RETRAITES
POUR LA VIEILLESSE
(ELOGIO DELLA CASSA NAZIONALE DELLE PENSIONI
PER LA VECCHIAIA)

 
 

Oh! combien cette Caisse en sa présence au monde,
Par   tous    saluée    avec    un    vrai   transport
Pour   le   travailleur   et   contre   le   sort
A  combé  tout  un  espoir  qu’il  fonde
Que  sa  vie  ait  un  soir  meilleur!
Car du bien-être elle est sœur
Par  l’aide  si  discrète
Pour  ne  cesser
D’e f f a c e r
Les pertes
Certes
Oui!
A u s s i
D’elle on parle,
En  prose, en  vers,
Quand  par  des  revers,
Tout comme à Monte-Carle,
La     fortune     vous     trahit
Par    le    hasard    le    plus    subit
Et   vous  plonge  en  la  noire   misère
Le  travailleur  peut  donc  braver  le  sort
S’il  lui  verse  un  peu  du  gain  de  son  effort:
La   rente   qu’elle  fait  n’est  point   une   chimère!

 
Nel 1938 Luois de Meerless, pittore, poeta libero e inventore belga, pubblica un testo intitolato O Foire de Paris! (O fiera Parigi!) che apostrofa con l’epiteto: «Alta Novità! Nuova Scuola!» pregando il lettore di «non confondere la mia Poesia Cruciale con le parole incrociate!». In realtà, come scrive Michel Laclos, siamo piuttosto sul terreno dei «versi acrostici».

O P A R I S!O F R A N C E!
T A J O I E,F R A N C H E,
   C H A R M E;O!E X C I T E!...
V E R S T O I,O V I T T E;
J’A C C O U R;J E V O L E,
C A R T U T E D O N N E S!
O!F O I R E D E P A R I S,
L E M O N D E T’E N V I E!
T U E S:U N P A R A D I S;
O!B R I L L A N T:J O L I!
N I D D E F R A N C E!T U 
 E S«E S P R I T C O N Ç U»;
I S S U,D E S M O N D E S!

 
Secondo Laclos la poesia merita, per la sua incontestabile originalità, un piccolo posto nella collezione degli eterocliti (Michel Laclos, «La poesie cruciale», Bizarre, IV, avril 1956, p. 64). Nella disposizione originale, ogni punta della croce si prolunga in un piccolo triangolo raffigurante la bandiera francese, o meglio, come nota lo stesso Meerles, «i tre colori nell’ordine celeste, cioè: 1° Il Cielo (blu); 2° Le Nuvole (bianco); 3° La Terra (rosso)». Laclos mette in guardia il lettore dal considerare errori di ortografia certe dissonanze («j’accour», «vitte») che, al contrario, vanno interpretate come licenze poetiche.
La categoria di quelli che abbiamo chiamato «scrittori di riscritture» comprende i «pazzi letterari» che si sono cimentati in operazioni di ri-scrittura di testi più o meno famosi, condotte sulla base di regole precise. Un illustre antesignano di questi scrittori è Pierre Menard che ri-scrive il Don Quijote usando il metodo S + n, per n = 0. Senza dimenticare che fra i progetti non realizzati di Italo Calvino figurano una riscrittura dell’Amleto in cui l’ordine degli avvenimenti è rigorosamente capovolto («Amleto in palindromo») ed un’altra dell’Odissea con un Ulisse completamente incapace di viaggiare. Nel caso di questa tipologia di «pazzi letterari» l’elemento visionario s’incarna nella piega di un’ossessione formale (ad esempio la brevità, come vedremo fra poco), nell’inseguimento maniacale di un modulo espressivo (il monosillabismo), sintomo forse di un richiamo all’essenzialità della vita, al senso della misura.
Una delle figure più interessanti a questo proposito è Carlo Cetti (1884-?), autore eclettico e prolifico, la cui produzione comprende novelle, testi di critica letteraria, libri di poesia, politica, economia, filosofia morale, satira, storia, pedagogia, trattati di mnemonica. Che cosa ha fatto Cetti? Movendo dalla teoria del «Brevismo», da lui elaborata nel 1946, ha riscritto, in ben 196 pagine, una versione semplificata dei Promessi sposi (1827) di Alessandro Manzoni. 
In un libro intitolato La lingua si perfeziona e progredisce tendendo a brevità (Teoria del brevismo). Appendice: Dell'arte narrativa (Como, Edizioni «Il ginepro», 1946) Cetti espone i princìpi del «Brevismo», una teoria che individua nella brevità del linguaggio un mezzo per la perfezione dello stile. Nel libro, scritto in forma di dialoghi fra diversi personaggi indicati come «Studente», «Cugino», «Ingegnere», «Dottore», ecc., Cetti sostiene che «la prima cosa cui, parlando o scrivendo, si deve badare, è la parsimonia sillabica, quindi, in ogni caso, alle parole, o locuzioni lunghe, si dovran preferir le brevi». Fra due parole di eguale numero di sillabe, si preferirà quella che inizia con vocale, perché nel corpo della frase, una sua sillaba si elide. La prosa dei più illustri scrittori italiani (Cetti chiama in causa Giacomo Leopardi) pecca di ridondanza sillabica. Più una lingua si libera del superfluo, più si fa perfetta. Più è sintetica, maggiore sarà la perfezione di stile. Cetti propone cinque norme per la sua teoria: 1. non usare la doppia consonante, dove basti la semplice come in «imagine», «patriota», «sodisfare»; 2. omettere la «i», la «u» o altra vocale in parole come «ceco», «sufficente», «gioco», ecc. 3. usare senza prefisso parole che di solito lo conservano come «bruciare» per «abbruciare», «malare» per «ammalare»; 4. liberare del prefisso le parole che lo tengono incollato a sé dicendo «lontanare» per «allontanare», «ricchire» per «arricchire», «bandonare» per «abbandonare», e cercare altre semplificazioni di parole come quella, ad esempio, di «sututto» per «soprattutto», «nostante» per «nonostante»; 5. valersi il più possibile dell'apostrofo e dei troncamenti per risparmiare sillabe e quindi migliorare lo stile.



Cetti riassume la sua teoria con questa «regola delle regole»: «è solo coll'usar, pur col debito riguardo a chiarezza, il minor numero possibile di sillabe, che si può conseguir la perfezion dello stile». La lingua italiana, che ha il pregio di essere armoniosa e di scriversi come si pronuncia, ha in più il dono della brevità. I dialetti, ad esempio il lombardo, sia nella grafia che nella pronuncia, sono più brevi dell'italiano e quindi sono uno strumento più perfetto d'espressione delle idee e dei sentimenti, anche se hanno il limite di essere compresi da poche persone. Il loro uso non può che favorire lo sviluppo dell'intelligenza e del carattere. Per bocca dei suoi personaggi, Cetti avanza la proposta di fondare una «Società per il progresso e perfezionamento della lingua» con il compito di bandire concorsi a premio consistenti nel: a) presentare saggi d'emendazione di brani di prosa di nostri illustri scrittori; b) fornire elenchi di vocaboli che si possono scrivere in due differenti modi, al fine di eleggere stabilmente il più breve; c) proporre la semplificazione sillabica di parole lunghe. Come il secolo scorso ha visto trionfare il «purismo», Cetti si augura che questa possa essere l'epoca del «Brevismo». A suo parere nuocciono alla brevità l'abuso della congiunzione «e», l'uso del «d eufonico» che si aggiunge alla congiunzione «e», dell'«i» messo in principio alle parole che iniziano per «s impura», delle preposizioni articolate (meglio dire «le città di Francia» che «le città della Francia»), degli inutili partitivi («c'erano oggetti» e non «c'erano degli oggetti»), l'eccesso di «che», «di», «come se», degli avverbi in «mente», dei superlativi, ecc. Anche i segni d'interpunzione permettono di risparmiare parole, a vantaggio della rapidità e dello stile; invece che «i due amici discorrevan, mentre le note d'una canzone salivan dalla via» meglio dire «i due amici discorrevan: le note d'una canzone salivan dalla via». Altre regole per valorizzare la brevità individuate dal Cetti sono: 1. omettere tutto ciò che l'uditore o il lettore possono facilmente sottintendere; 2. disporre le parole in modo accorto nelle frasi e nei periodi; «vidi un monte verdeggiante di pascoli, boscoso, altissimo» non va, devo dire «vidi un monte altissimo, boscoso, verdeggiante di pascoli»; 3. scrivere usando periodi in prevalenza brevi, ciascuno dei quali esprima un concetto a sé, ben distinto dagli altri, andando spesso a capo.
Quando il «Brevismo» avrà esaurita la sua funzione e la nostra lingua avrà raggiunto un grado di brevità oltre il quale non si può andare senza venire meno alla chiarezza, allora - sostiene Cetti - potrà sorgere un nuovo movimento: lo «stacchismo» cioè il dare ad ogni periodo il conveniente stacco concettuale da quello che lo precede. 
A dimostrazione della bontà della sua teoria Cetti propone la semplificazione di questo brano di Leopardi tratto da I Pensieri (1845):
 

Io ho lungamente ricusato di creder vere le cose che dirò qui sotto, perchè, oltre che la mia natura era troppo rimota da esse, e l'animo tende sempre a giudicare gli altri da se medesimo, la mia inclinazione non è stata mai d'odiare gli uomini, ma di amarli. In ultimo l'esperienza quasi violentemente me le ha persuase: e son certo che quei lettori che si troveranno aver praticato cogli uomini molto e in diversi modi, confesseranno che quello ch'io sono per dire è vero; tutti gli altri lo terranno per esagerato, finchè l'esperienza, se mai avranno occasione di veramente fare esperienza della società umana non lo ponga loro dinanzi agli occhi.

che applicando il metodo cettiano diventa:

Ho ricusato a lungo, di creder vere le cose che qui dirò, perchè, oltre che l'indole mia era assai remota da esse, - e l'animo tende a giudicar gli altri da sè - non fu mai mia inclinazione odiar gli uomini, ma amarli.
Da ultimo, quasi a forza, l'esperienza me ne persuase, e son certo che coloro che molto, e in diversi modi, han praticato con essi, troveran vero ciò che son per dire: gli altri lo terran per esagerato, sin che l'esperienza, se mai avranno occasione di farne, nol ponga loro dinanzi gli occhi.

Ma il vero «capolavoro» del Cetti è il Rifacimento dei Promessi Sposi (Como, a cura dell’Autore, Soc. Arti Grafiche S. Abbondio, 1965) dove il brevismo conosce la sua realizzazione più originale e profonda.
L’ìncipit manzoniano:

Quel ramo del lago di Como, che volge a mezzogiorno, tra due catene non interrotte di monti, tutto a seni e a golfi, a seconda dello sporgere e del rientrare di quelli, vien, quasi a un tratto, a restringersi, e a prender corso e figura di fiume, tra un promontorio a destra e un’ampia costiera dall’altra parte; e il ponte, che ivi congiunge le due rive, par che renda ancor più sensibile all’occhio questa trasformazione, e segni il punto in cui il lago cessa, e l’Adda ricomincia, per ripigliar poi nome di lago dove le rive, allontanandosi di nuovo, lascian l’acqua distendersi e rallentarsi in nuovi golfi e in nuovi seni.

diventa nella versione cettiana:

Quel ramo del Lario che, tra due catene di monti e tutto seni e golfi, volge a sud, quasi a un tratto si restringe e, tra un’ampia costiera a manca e un promontorio a destra, prende corso di fiume; mutazione resa più evidente da un ponte che unisce le due rive lì ove termina il lago e l’Adda ricomincia, per riprendere poi nome di lago, ove esse riaprendosi, lasciano spaziare le acque in nuovi golfi e seni.

Nella sua autobiografia Cetti scrive: «la mia mente, a differenza di quel che avviene per la maggior parte degli uomini, non accoglie le idee da altri, ma le produce» (Carlo Cetti, Autobiografia, Como, a cura dell’autore, Soc. Arti Grafiche S. Abbondio, 1961, p. 48).
Una piccola notazione a margine. Nel libro Il Meretore (Ed. Sgambati, Padova, 1972) di Anacleto Cajazzo l’autore racconta di un suo prononno, vissuto tristemente a cavallo dell’Otto e Novecento che, assillato da problemi di lingua, vaneggia di grammatica ed ha deliri idiomatici sognando un italiano «degenerato». Rinchiuso nel manicomio di Fidenza quest’antenato trascorse gli ultimi giorni della sua travagliata esistenza riscrivendo i Promessi sposi in «inversex», cioè volgendo al femminile tutte le parole: «Quella rama della laga di Coma» e così via (Pier Francesco Paolini, «Equilibri», il Caffè, 3-4, 1972, pp. 110-112).
Alla stessa filosofia «brevista» è ispirato l’esercizio di Mary Godolphin, pseudonimo della scrittrice inglese Lucy Aikin (1781-1864), che, con intenti pedagogici «ad uso dei più giovani lettori», scrive un Robinson Crusoe in words of one syllables, uscito postumo a Londra nel 1869 presso l’editore G. Routledge, una riduzione composta esclusivamente, salvo un paio di nomi propri, di parole monosillabiche del romanzo di Daniel Defoe The life and strange surprizing adventures of Robinson Crusoe (1719-1720). 
La scena del naufragio nella versione monosillabica della Godolphin inizia così:

We were not more than twelve days from the Line, when a high wind took us off we knew not where. All at once there was a cry of «Land!» and the ship struck on a bank of sand, in which she sank so deep that we could not get her off. At last we found that we must make up our minds to leave her, and get to shore as well as we could. There had been a boat at her stern, but we found it had been torn off by the force of the waves. One small boat was still left on the ship’s side, so we got in it.

Misteriosamente nel suo rifacimento la scrittrice inglese si prende alcune libertà, come far morire Venerdì prima della fine del romanzo. La Godolphin è autrice di altri due libri monosillabici Sandford and Merton, in words of one syllabe (1868?) e The pilgrim's progress, in words of one syllabe (1884), entrambi pubblicati a New York.
Un vero e proprio trionfo della «brevità regolata» (però senza riscrittura) sono le poesie del poeta emiliano Saverio Ascari, tutte rigorosamente composte di una sola parola. Una s’intitola «Colore» e fa: Blu. Un’altra che ha per titolo «Cavallo» recita così: Animale. In un’altra ancora, intitolata «Elettrodomestico», si legge: Frigorifero oppure Televisione (Daniele Benati, Silenzio in Emilia, Milano, Feltrinelli, 1997, pp. 30-41).



Intervento al convegno su «Écritures et lectures à contraintes» organizzato dalla rivista Formules, revue des littératures à contraintes diretta da Jan Baetens e Bernardo Schiavetta, convegno svoltosi al Centre Culturel International de Cerisy-la-Salle dal 14 al 21 agosto 2001.
Questo testo è uscito nella traduzione francese di Tanka G. Tremblay sul numero 1, 2008, pp. 73-80, di Les Cahiers de l'Institut, rivista dell'Institut International de Recherches et d'Exploration sur les Fous Littéraires costituitosi a Fontenoy-la-Joute in Francia nel 2007. Per leggere la traduzione di Tremblay cliccate qui.
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Questo testo è citato da Raul Schenardi nella sua "Nota del traduttore" che compare nel libro dello scrittore messicano Óscar de la Borbolla Le vocali maledette, Edizioni Arcoiris, Salerno, 2014. Si tratta di cinque racconti monovocalici.








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