Paolo Albani
LA BIRMANA


Nell’autunno del 2004 il ceppo B di un temibile virus, chiamato in termini scientifici collido AZ1, di provenienza asiatica, venne isolato per la prima volta in Italia, e precisamente a Guasticce, un paesino vicino a Livorno. Con un’apposita tecnica di biologia molecolare, il virus fu rintracciato in una bambina di 12 anni che, da giorni, non faceva che urtare sbadatamente contro gli spigoli dei tavoli, travolgere sedie, inciampare negli scalini di casa e in quelli, scheggiati in più punti, della scuola e della vecchia chiesa del paese, oltre che sbattere goffamente contro le amichette, i genitori e il nonno Aldo, che si arrabbiava molto per quei colpi fastidiosi e non richiesti.
Quell’anno l’influenza fu particolarmente virulenta e investì nella sua punta massima, cioè nel mese di dicembre, una buona metà della popolazione italiana, e i due terzi di quella europea, soprattutto bambini, anziani e persone dai movimenti espansivi, cioè con camminata sciolta, roteazione accentuata delle braccia e ancheggiamento vistoso, nonché impulsivo.
A differenza degli anni passati, in cui si annunciava con i sintomi classici, cioè febbre, brividi, dolori articolari, mal di testa e a volte con disturbi intestinali, seguiti da infiammazioni diffuse, nell’inverno del 2004 l’influenza si manifestò in modo del tutto anomalo. Come spiegarono gli esperti dell’Organizzazione Mondiale della Sanità il virus isolato era di un tipo nuovo, e agiva «sul livello di scontrosità motoria dei soggetti inibendone le capacità di calcolo delle distanze». In altre parole, aggrediti dal virus, gli individui smarrivano il senso della percezione spaziale.
Il disagio sociale provocato dalla birmana - così la battezzarono, senza molta fantasia, i giornali, dato che l’influenza si sviluppò in origine a Mandalay, l’antica capitale della Birmania - fu enorme. Una grande quantità di ore di lavoro andò in fumo. Molti ristoranti, per colpa dei piatti rotti dai camerieri che scivolavano maldestramente fra i tavoli, furono costretti a chiudere. La stessa sorte capitò a non pochi esercizi pubblici, come barbieri, grandi magazzini, toilette per cani, librerie, e ai bazar che esponevano oggetti di porcellana, alle vetrerie. 
Sulle saracinesche abbassate di un’infinità di negozi furono attaccati dei foglietti con su scritto a pennarello «chiuso per malattia» (alcuni, per non destare allarme nella clientela, preferiro-no la più rassicurante formula «chiuso per ferie»).
Numerose manifestazioni sportive vennero soppresse dalle prefetture per ragioni d’ordine pubblico; ogni volta che le tifoserie delle squadre avverse entravano in contatto, aumentava il rischio di violenti scontri. A causa del suo potere destabilizzante, il collido AZ1 procurava ai tifosi oscillazioni corporee improvvise, non controllabili e li spingeva ad affrontarsi, minacciosi, sulle gradinate degli stadi e anche fuori, nelle strade adiacenti i campi sportivi. 
Gli scontri esplodevano quasi sempre riproponendo lo stesso copione: all’inizio, si accendevano qua e là dei piccoli focolai; innocue gomitate partivano dagli opposti fronti, seguite da qualche spintone, una scossa, un banale impatto di striscio; poi, piano piano, i guizzi insofferenti dovuti all’effetto del virus si diffondevano in modo preoccupante, almeno nell’area dei più «contaminati»; alla fine, le scaramucce si trasformavano in gigantesche risse, che le forze dell’ordine (a loro volta non sempre immuni dall’azione del collido AZ1) cercavano di sedare distribuendo manganellate all’impazzata.
In quel periodo capitava con una certa frequenza di vedere due persone che camminavano per strada urtarsi e cominciare a girare su se stesse, piroettando alcuni minuti come trottole, vertiginosamente, o di assistere alla scena poco edificante di un’anziana signora che, d’improvviso, sbatteva il naso contro il palo di un cartello stradale, o di sentire un colpo, girarsi e vedere un ciclista che volava in aria, rovinando sull’asfalto, dopo aver sfiorato lo specchietto retrovisore di una macchina in sosta.
Gli angoli delle strade erano diventati un incubo; il pericolo di una sonora capocciata incombeva dappertutto. Camminando sul marciapiede si doveva fare attenzione a non svoltare troppo in fretta. Qualcuno, per avvertire della propria presenza, si appese al collo un campanaccio; altri, prima di cambiare direzione, suonavano un fischietto o quelle trombe assordanti (e odiose), usate per infiammare gli animi dei tifosi durante le partite di calcio. In molti quartieri gli amministratori dei condomini fecero installare degli specchi bene in vista sulle cantonate e anche dei faretti per la notte, con luce antinebbia, allo scopo di evitare, o quanto meno limitare, gli incidenti fra pedoni.
In alcune città (soprattutto nel sud dell’Italia) nacquero spontaneamente dei «Comitati di volontari contro il collido AZ1». I volontari erano riconoscibili perché indossavano una tuta azzurra che aveva stampata, nella parte posteriore, questa massima: «Muoversi è bene, fermarsi è meglio!» Il loro compito, svolto attraverso una premurosa sorveglianza, era impedire alle persone colpite dal virus di farsi del male o di provocare danni ad altri con gesti inconsulti.
I locali dei «Pronto Soccorso» pullulavano di gente malconcia, piena di lividi, colpita dal virus collido AZ1. Una persona con i sintomi dell’influenza, correndo, poteva investirvi e farvi cadere malamente, senza neppure avere il tempo e il garbo di scusarsi, indolenzita dai formicolii della malattia, o poteva distruggere con una ginocchiata il vostro sacchetto della spesa, sparpagliandone il contenuto per terra.
Negli autobus affollati, negli uffici postali, nei supermercati, ovunque nei luoghi di forte affluenza, era tutto uno sgomitare a destra e a sinistra, un farsi largo scomposto, un tirarsi colpi bassi, a tradimento, uno spingersi, un darsi contro, a causa del collido AZ1
La televisione e la radio raccomandavano di non circolare con le mani ingombre, di evitare soprattutto le confezioni a rischio, quelle contenenti uova, sostanze oleose e liquidi sgrassanti, e ancora non si stancavano d’invitare la gente ad aprire con prudenza le portiere delle auto, di tenere chiusi i battenti delle finestre ai primi piani delle abitazioni, come pure le vetrate e ogni genere di sportello esposto al passaggio della gente e di indossare preferibilmente giacconi imbottiti, per attutire l’eventuale urto.
L’influenza ebbe il suo decorso naturale, durò alcuni mesi mietendo vittime in ogni parte del mondo, accompagnata dagli schiamazzi allarmistici dei mass media e dagli accorati appelli delle autorità a moderare la «deambulazione sregolata», come si leggeva in una circolare del Ministero della Sanità. Nel 2005, a primavera inoltrata, finalmente il collido AZ1 scomparve, ma lasciò qualche strascico fastidioso. Ci furono delle ricadute e la gente continuò a sgomitare ancora a lungo.

 febbraio 2002



Apparso anche su il Caffè illustrato, 17, marzo-aprile 2004, pp. 6-7.



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Il racconto è uscito anche in
La governante di Jevons. Storie di precursori
dimenticati
, Campanotto 2007.



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