Paolo Albani
FILIPPO TOMMASO
MARINETTI:
PAROLE IN LIBERTÀ
E LINGUE IMMAGINARIE
1. «Ia iuscina
starobinski prest glasno bedo
niebatu loboski
farda glutoi alcadash staprovich balai. Lantinava rostic paratoi
niest...»
Come si sarà capito questo non è russo, ma semplicemente
una parodia del russo, una pseudo-lingua che imita i suoni e le cadenze
di quella russa, insomma una versione caricaturale e burlesca del
russo.
Racconta Ettore Petrolini che una volta, da ragazzo, nei dintorni
del Colosseo gli venne un'idea: si levò la giacca, se la mise
alla
rovescia e poi con un libretto in mano si mise davanti all'Arco di Tito
e poi a quello di Costantino borbottando «le parole più
disarticolate
e indecifrabili: Der gut - mis prosten - der cic - goubat -
pronobis
- vagher - cituik - bubuc». Ma perché?
«Perché»
- risponde Petrolini - «m'illudevo d'essere scambiato per un
forestiere».
Ed aggiunge: «Facevo il teatro [...]. Molte volte mi son
domandato
perché facessi questo. Per finzione? Per pazzia? Per scemenza?
Niente
di tutto ciò. Vi ripeto: facevo il teatro».
Le «lingue parodiate» - si pensi ad esempio al
«latino
maccheronico» di Teofilo Folengo, al finto-turco nella commedia Il
borghese gentiluomo di Molière oppure, più
recentemente,
al «grammelot» di Dario Fo od ancora alla scrittura corsiva
d'impronta semitica creata da Luigi Serafini nel suo Codex
Seraphinianus
- costituiscono uno fra i molti esempi di lingue immaginarie che la
fantasia
e la capacità inventiva dell'uomo hanno creato in tempi ed
ambiti
culturali (religioso, filosofico-scientifico, artistico-letterario,
pratico-commerciale,
ecc.) diversi.
Le lingue immaginarie sono lingue «fittizie», lingue
non naturali, dove l'attributo «naturale» sta ad indicare
una
lingua il cui apprendimento avviene per trasmissione orale dai genitori
e dall'ambiente circostante. In questo senso «immaginaria»
è ogni lingua di tipo artificiale, frutto dell'elaborazione a
tavolino
di una o più persone, non necessariamente appartenenti alla
categoria
dei «linguisti di professione» (gli inventori di lingue
ausiliarie
internazionali, tipo Volapük o Esperanto, sono ad esempio, eccetto
qualche raro caso, come quello del linguista danese Otto Jespersen, per
la maggior parte medici, ingegneri, matematici, sacerdoti, avvocati,
maestri
di scuola, poveri cristi, ecc.).
In un'accezione comune, derivata in gran parte dai resoconti
di viaggi fantastici, è pur vero che il concetto di
«lingua
immaginaria» si riferisce a lingue di popoli inesistenti che
vivono
in paesi «de nulle part», irreali, ed è associato
all'atmosfera
esotica di Eldoradi lontani, di Terre sconosciute. Se tuttavia abbiamo
mantenuto l'uso dell'aggettivo «immaginaria», preferendolo
ad altri possibili come «artificiale» o
«inventata»,
e gli abbiamo attribuito un significato estensivo così da
renderlo
sinonimo di «non naturale», è per sottolineare quel
margine di fantasia, di «libera associazione dei dati
dell'esperienza
sensibile» che sempre presiede alla creazione di una lingua
«fittizia»,
senza per altro nulla togliere alla scientificità e alla
praticità
che in alcuni casi sostengono la sua progettazione.
Sulla base di un criterio generale di funzionalità, le
lingue immaginarie possono essere suddivise in due grandi aeree,
distinguendo
quelle il cui fine è di carattere sacro, cioè di
«comunicare»
con il divino o comunque di dar voce ad un mondo spirituale non
rappresentabile
con il linguaggio ordinario (è il caso delle glossolalie
religiose,
delle lingue iniziatiche, magiche, divinatorie, ecc.), da quelle il cui
fine è invece di carattere non sacro, tipologia che comprende da
un lato i progetti per la comunicazione a scopo sociale (oltre alle
lingue
ausiliarie internazionali come l'Esperanto, si pensi ai linguaggi
logico-matematici,
a quelli gestuali, dei segnali, ai linguaggi tattili, abbreviati, ai
gerghi,
alle crittografie, ecc.) e dall'altro le sperimentazioni più o
meno
artistiche motivate da un puro gioco espressivo.
2. All'inizio, parlando
delle «parodie di lingue
straniere»,
ho citato Petrolini. Nel 1916 Petrolini mette in scena alcune sintesi
futuriste
e nel 1917-1918 scrive con Francesco Cangiullo Radioscopia, una
«compenetrazione» di spettacolo di varietà e di
«dramma
dietro le quinte». Su L'Italia futurista del 1919,
Marinetti
scrive:
Il puro umorismo futurista
trionfa nell'arte assolutamente
inventata
di Petrolini. Egli uccide con i suoi lazzi il non mai abbastanza ucciso
chiaro di luna.
Questo amore dei futuristi per
Petrolini, considerato uno dei
rinnovatori
del teatro, e grande giocoliere con le parole, ci offre lo spunto per
introdurre
il discorso sul rapporto fra la sperimentazione poetica dei futuristi e
le lingue immaginarie, il pretesto per tentare di cogliere i possibili
intrecci che legano certi punti qualificanti dell'innnovazione
linguistica
dei futuristi ad alcune particolari «classi» di lingue
immaginarie.
C'è subito da dire che tutta l'esperienza delle
avanguardie
storiche - futurismo, dadaismo, surrealismo - rappresenta un
formidabile
laboratorio dove si progetta e si alimenta l'invenzione
linguistica.
Per quanto riguarda il futurismo dobbiamo naturalmente prendere
le mosse dalla teoria delle «parole in libertà»
definita
e perfezionata da Marinetti, com'è noto, in tre successivi
manifesti
«tecnici»: il Manifesto tecnico della letteratura
futurista
dell'11 maggio 1912, con l'annesso Risposte alle obiezioni
dell'11
agosto 1912, Distruzione della sintassi - Immaginazione senza fili
-
Parole in libertà dell'11 maggio 1913 e Lo splendore
geometrico
e meccanico e la sensibilità numerica del 18 marzo
1914.
In estrema sintesi possiamo dire che l'urgenza di un nuovo
linguaggio
nasce in Marinetti dall'affermarsi di un modo nuovo di sentire il
mondo.
Il Futurismo si fonda sul completo rinnovamento della
sensibilità
umana avvenuto per effetto delle grandi scoperte scientifiche. Il
telegrafo,
il telefono, il grammofono, il treno, la bicicletta, la motocicletta,
l'automobile,
il transatlantico, il dirigibile, l'aeroplano, il cinematografo, il
grande
quotidiano («sintesi di una giornata del mondo»): tutte
queste
diverse forme di comunicazione, di trasporto e d'informazione, afferma
Marinetti, esercitano sulla psiche una decisiva influenza in quanto
producono
fenomeni significativi come l'acceleramento della vita, l'amore del
nuovo,
dell'imprevisto, del pericolo, la moltiplicazione e lo sconfinamento
delle
ambizioni e dei desideri umani, la conoscenza esatta di tutto
ciò
che ognuno ha d'inaccessibile e d'irrealizzabile, la semi-uguaglianza
dell'uomo
e della donna, la modificazione della concezione della guerra diventata
il collaudo sanguinoso e necessario della forza di un popolo, un nuovo
senso meccanico, una fusione dell'istinto con il rendimento del motore,
l'amore della velocità, della profondità e dell'essenza
in
ogni esercizio dello spirito. Tutto ciò sta alla base della
nuova
sensibilità futurista.
Le «parole in libertà» sono lo strumento
linguistico
per tradurre in modo efficace questa nuova sensibilità. Del
resto,
qui si constata un'evidenza banale: il linguaggio (anche quello
poetico)
è un sistema di segni regolato da un codice non fisso, ma
aperto,
che varia sulla base dei bisogni da soddisfare. Se i bisogni cambiano,
il codice deve adeguarsi alle nuove necessità.
Le indicazioni di Marinetti sono chiare e perentorie:
1. distruggere la sintassi
disponendo i sostantivi a
caso, come
nascono;
2. usare il verbo all'infinito perché si adatti
elasticamente
al sostantivo e non lo sottoponga all'«io» dello scrittore
che osserva o immagina; al contrario, l'«io» dev'essere
distrutto
in letteratura;
3. abolire l'avverbio, la punteggiatura, l'aggettivo
qualificativo
che presuppone un arresto nella intuizione (nel 1913 Marinetti parla di
aggettivo semaforico, aggettivo-faro o aggettivo-atmosfera, cioè
di un aggettivo separato dal sostantivo, isolato in una parentesi,
capace
di lanciare lontano «la sua luce girante»);
4. ogni sostantivo deve avere il suo doppio, cioè il
sostantivo
deve essere seguito, senza congiunzione, dal sostantivo a cui è
legato per analogia (esempi: uomo-torpediniera, donna-golfo,
folla-risacca,
piazza-imbuto, porta-rubinetto);
5. trovare gradazioni di analogie sempre più vaste (a
questo riguardo Marinetti usa una terminologia molto attuale, se
pensiamo
alle «autostrade telematiche»: parla infatti di «reti
d'immagini» che verranno lanciate nel mare misterioso dei
fenomeni);
6. realizzare un maximun di disordine nel disporre le immagini;
7. sostituire la psicologia dell'uomo, ormai esaurita, con
l'ossessione
lirica della materia;
8. introdurre in letteratura il rumore (manifestazione del
dinamismo
degli oggetti), il peso (facoltà di volo degli oggetti), l'odore
(facoltà di sparpagliamento degli oggetti);
9. fare coraggiosamente il «brutto» in letteratura
ed uccidere dovunque la solennità.
Per imprimere alle parole
tutte le velocità -
«quelle
degli astri, delle nuvole, degli aeroplani, dei treni, delle onde,
degli
esplosivi, dei globuli della schiuma marina, delle molecole, e degli
atomi»
- e raddoppiarne la forza espressiva Marinetti introduce anche una
«rivoluzione
tipografica» diretta «contro la bestiale e nauseante
concezione
del libro di versi passatista e dannunziana»:
«Noi useremo
perciò» - scrive Marinetti nel
Manifesto
del 1913 - «in una medesima pagina, tre o quattro
colori
diversi d'inchiostro, e anche 20 caratteri tipografici diversi, se
occorra. Per esempio: corsivo per una serie di sensazioni simili o
veloci, grassetto
tondo per le onomatopee violente, ecc.».
C'è infine
l'ideazione del «lirismo
multilineo»
con il quale ottenere la «simultaneità (concetto mutuato
dai
pittori futuristi) lirica», ossia la possibilità di
percorrere
contemporaneamente «catene di colori, suoni, odori, rumori, pesi,
spessori, analogie». Nascono così le tavole parolibere,
chiamate
da Marinetti «tavole sinottiche di poesia o passaggi di parole
suggestive»,
veri e propri «collages tipografici», anticipatori di
quella
che verrà chiamata poesia concreta e visiva.
Possiamo ora, dopo questo breve riassunto della poetica
futurista,
soffermarci su tre aspetti qualificanti dell'invenzione linguistica dei
futuristi e vederne i riflessi su alcune lingue immaginarie.
Prima di tutto dobbiamo considerare «l'uso audace e
continuo
dell'onomatopea» che scaturisce dall'amore dei futuristi per la
materia,
dalla volontà di penetrarla e di conoscerne le vibrazioni, dalla
simpatia che li lega ai motori. L'onomatopea che riproduce il rumore
è
necessariamente uno degli elementi più dinamici della poesia, la
sua brevità permette «di dare degli agilissimi intrecci di
ritmi diversi».
Nel Manifesto del 1914 Marinetti distingue diversi tipi di
onomatopee:
a) l'onomatopea diretta
imitativa elementare realistica
(esempio:
«pic pac pum, fucileria»);
b) l'onomatopea indiretta complessa e analogica (Marinetti cita
l'esempio dell'onomatopea «stridionla stridionla
stridionlaire»
che si ripete nel primo canto del suo poema epico La conquista
delle
stelle, volta a «formare un'analogia fra lo stridore di
grandi
spade e l'agitarsi rabbioso delle onde, prima di una grande battaglia
di
acque in tempesta»;
c) l'onomatopea astratta, «espressione rumorosa e
incosciente
dei moti più complessi e misteriosi della nostra
sensibilità»;
d) l'accordo onomatopeico psichico, ovvero la fusione di due
o tre onomatopee astratte.
L'importanza e la dominanza
dell'onomatopea nel
linguaggio dei
futuristi sono suffragate dalla creazione nel 1916
dell'«onomalingua»
da parte di Fortunato Depero. Linguaggio delle forze naturali (vento,
pioggia,
mare, ecc.) e degli «esseri artificiali rumoreggianti creati
dagli
uomini» (biciclette, tram, treni, automobili e tutte le
macchine),
l'«onomalingua» è lo strumento più
rudimentale
e più efficace per esprimere le emozioni e le sensazioni. Nei
monologhi
dei clowns e dei comici di varietà, scrive Depero, vi sono
tipici
accenni all'onomalingua che costituisce la lingua più indovinata
per la scena e specialmente per le esagerazioni esilaranti. Con
l'«onomalingua»,
aggiunge Depero, si può parlare efficacemente con gli elementi
dell'universo,
con gli animali e con le macchine, dato che è un linguaggio
poetico
di comprensione universale per il quale non sono necessari traduttori.
Qui affiora un concetto che merita di essere sviluppato, ovvero
quello del linguaggio onomatopeico come linguaggio universale.
Nel 1864 Dmitrij N. Cernušenko, autore dell'opuscolo intitolato Lezioni
per la lingua universale Volapük. Aspirazione alla pace,
riconciliazione
degli antagonisti, riunificazione degli estremi, pubblicato ad
Harkov
in Ucraina nel 1890, elabora un progetto di lingua universale basata
sulla
naturalità dei suoni onomatopeici. Per Cernušenko il suono in
natura,
essendo comprensibile a tutti, permette di realizzare una lingua
universale
fondata su suoni naturali. Per indicare dove si devono cercare le forme
per costruire una lingua mondiale, Cernušenko fornisce alcuni esempi di
lettere prese dalla natura, esempi che i filologi debbono assolutamente
considerare nella preparazione dell'alfabeto di una nuova lingua.
Poiché
presso tutti i popoli un bambino appena nato quando apre la bocca
pronunzia
il suono «a», questo suono deve essere scritto con un segno
simile all'uomo; in tutte le nazioni le pecore, belando, emettono il
suono
«be», quindi il suono «b» deve essere indicato
con una forma simile alla pecora; quando il lupo ulula emette sempre il
grido «vu-vu», quindi la lettera «v» deve
essere
raffigurata somigliante al lupo; il cane abbaia facendo
«hau»,
perciò la lettera «h» deve essere rappresentata
simile
al cane; ecc.
Ora, com'è noto l'onomatopea in quanto specchio sonoro,
armonia imitativa di una realtà naturale è stata spesso
interpretata
come l'espressione di un linguaggio primitivo, originario, parlato
prima
della confusione delle lingue e quindi universale. Lo stesso
balbettìo
incomprensibile dei bambini è stato visto come il segno di uno
stato
supposto naturale, identico in tutti gli uomini. Il linguaggio
dell'infanzia
che rimanda all'infanzia del linguaggio. Certo, dal punto di vista
scientifico,
la tesi di un'origine imitativa del linguaggio non sembra avere nessun
fondamento.
In ogni caso l'onomatopea si presenta quasi sempre come
l'anticamera
di ogni discorso che mira al recupero di un linguaggio primitivo,
comune
a tutti gli uomini. Lo stesso Marinetti, nel primo Manifesto del
Futurismo
del 20 febbraio 1909, inneggia al bisogno che «il poeta si
prodighi,
con ardore, sfarzo e munificenza, per aumentare l'entusiastico fervore
degli elementi primordiali». Fra questi elementi primordiali
c'è
il linguaggio come materia, oggetto puramente sonoro.
Ma è soprattutto nel futurismo russo che l'idea di un
linguaggio fonetico come linguaggio universale trova la sua maggiore
teorizzazione.
La zaum' dei futuristi russi, dove la parola russa sta per
«lingua
trasmentale», è una lingua priva di regole grammaticali,
di
prescrizioni sintattiche, di convenzioni semantiche e di norme
stilistiche,
creata per esprimere le emozioni e le sensazioni primordiali che vanno
perdute nei significati della lingua comune. Il termine
«zaum'»
è coniato da Aleksej E. Krucënych nello scritto Dichiarazione
della parola, come tale dell'aprile 1913. Per la lingua zaum'
Krucënych
usa varie denominazioni quali: «lingua universale»,
«lingua
libera», «lingua di propria invenzione»,
«lingua
che non ha un significato definito», «supremus
inoggettuale»,
«nuovo esperanto», «lingua economica», oltre
che
«suono-disegno», «suono-immagine»,
«suono-parola».
L'universalità della zaum' si basa sul fatto che nella storia
degli
uomini i suoni precedono i significati; i suoni rappresentano un
elemento
naturale, e perciò stesso universale, della comunicazione umana.
L'esperienza della zaum' prelude alla creazione di una sorta di
filologia
fantastica che considera il linguaggio poetico nella sua autonomia
rispetto
al linguaggio pratico, utilitario, calcolatore.
Almeno fin dal 1910, l'utopia di una lingua universale, fondata
sui suoni, è ricorrente nella riflessione teorica di Velimir V.
Chlebnikov, altro inventore della zaum'. Alcuni studiosi hanno persino
indicato in Chlebnikov un seguace delle lingue filosofiche perfette
elaborate
nel seicento da personaggi come George Dalgarno, John Wilkins e
Gottfried
Leibniz. In un testo dell'aprile 1919 intitolato La lingua scritta
del
globo terrestre: sistema di geroglifici comuni per tutti i popoli del
pianeta,
Chlebnikov scrive che lo scopo del lavoro degli artisti e dei
pensatori:
è creare una comune lingua
scritta, comune a tutti i
popoli del
terzo satellite del Sole, e costruire segni scritti comprensibili e
accettabili
per tutte le stelle popolate di uomini e sperdute nell'universo [...].
L'obiettivo di un'unica lingua universale costruita scientificamente si
presenta sempre più chiaramente di fronte all'umanità.
Vostro
compito, o artisti, sarebbe di costruire opportuni segni di scambio tra
i valori del suono e i valori dell'occhio, costruire una rete di segni
che ispirano fiducia.
L'elaborazione di una
lingua universale riflette tanto
un atteggiamento
dei futuristi russi che scorgevano in una lingua
«nazionale»
un limite alle proprie possibilità creative, quanto
l'aspirazione
personale di Chlebnikov di rendere l'uomo cittadino del mondo, un po'
la
stessa che anima molti dei progetti di lingue ausiliarie internazionali
come l'Esperanto che Chlebnikov per altro considerava una lingua
«chiara,
semplice e bella ma povera di suoni [...], eccedente negli omonimi e
povera
di sinonimi».
L'idea chlebnikoviana che nei suoni si nascondono i sensi arcaici
e autentici di una mitica lingua originaria è molto lontana
dalle
onomatopee marinettiane che, anche nella loro accezione astratta, sono
pur sempre espressioni dinamiche, simultaneistiche, dislocate per
funzionare
da glosse ad un testo.
Così lontana che il poeta Benedikt K. Livšic, ruotante
nell'orbita dei cubofuturisti russi, racconta che nella serata
pietroburghese
del 1914 organizzata in onore di Marinetti, di fronte alla domanda
dello
stesso Marinetti: «La zaum'? Ma cos'è dunque?»,
quando
Livšic comincia a parlargli di «elemento primordiale della
parola»,
Marinetti lo interrompe gridando che quella è metafisica e non
ha
nulla a che fare con il futurismo.
Un riferimento al primitivismo linguistico, ad una lingua edenica
espressa in suoni strampalati, sottratti alla stessa logica
onomatopeica,
si trova anche in modo esplicito nella poesia fonetica dadaista. I
suoni
servono a comporre «parole transrazionali», prive di
significato,
che in alcuni casi possono foneticamente ricordare suoni esotici
identificabili
con il repertorio di lingue africane.
Nella poesia intitolata «Maori. Toto-vaca»,
pubblicata
nel 1920 sul Dada almanach di Berlino, Tristan Tzara mescola
parole
di un ipotetico linguaggio «primitivo» con altre di sapore
infantile, che riportano alla mente le filastrocche dei bambini:
ka tangi te kivi
kivi
ka tangi te moho
moho
ka tangi te tike
ka tangi te tike
tike
he poko anahe
to tikoko tikoko
haere i te hara
tikoko
ko te taoura te rangi
[...]
Nei suoi diari, raccolti
nel libro intitolato La
fuga dal tempo
del 1927, Hugo Ball esprime il «dubbio» che sia giusto
attribuire
una priorità alla parola parlata, pensata o scritta e ammette
invece
di propendere a favore di un «linguaggio paradisiaco dei
segni».
Il primato della poesia più lunga composta di
«parole
sonore» appartiene all'attore e poeta svizzero Rudolf
Blümner
che pubblica nel 1921 sulla rivista Der Sturm, uno dei
principali
organi del movimento espressionista berlinese, «Ango
Laïna»,
un'interminabile «poesia assoluta» che riecheggia nei suoni
il linguaggio di un popolo primitivo. E ciò non stupisce
perché,
come teorico della declamazione, Blümner rinnova le tecniche di
recitazione
della parola ispirandosi all'arte africana.
3. Di lingue immaginarie di
tipo onomatopeico è
costellata
la produzione artistica di ogni epoca. Basti pensare al linguaggio
degli
animali (a quello famoso delle rane indicato con le voci onomatopeiche:
«brekekekex koax koax» nella commedia Le rane di
Aristofane)
o a quello incorniciato nelle nuvolette dei fumetti.
Tanto per fare alcuni esempi si partirà dalla lingua degli
Uomini-leoni, esseri ancora imperfetti nella scala dell'evoluzione
umana,
abitanti di un'isola esplorata da Victorin, personaggio del romanzo di
Restif de la Bretonne La scoperta australe da parte di un uomo
volante
del 1781, lingua caratterizzata dall'uso delle onomatopee e che dispone
di un solo caso e di un solo tempo (il verbo non ha che una forma
nominale),
così che per designare il passato ed il futuro si deve supplire
con i gesti.
Ancora più stravagante l'esempio di Charles-Louis, barone
di Mecklenbourg, che nel 1829 pubblica a Parigi un libro intitolato Solvique
e Phonique, dove espone un progetto di scrittura universale fondato
su una elaborata distinzione dei suoni delle parole. Mecklenbourg
distingue
i suoni in «posés» e «transits». I primi
corrispondono, sebbene non assolutamente, alle vocali e si articolano
in
«sourdins» e «clairins», quest'ultimi a loro
volta
distinti in oviformi, conici, lenticolari e sferici a seconda della
forma
presa dalla cavità orale sotto la glottide. L'alfabeto
«phonaire»
comprende 48 «phonins», di cui 38 «sourdins» e
10 «clarins». Le combinazioni possibili tra movimenti e
posizioni
degli organi della parola sono chiamate «clins». La
«solvique»
è la capacità di stabilire quali sono i
«clins»
necessari per formare ogni «sourdin». Senza andare oltre
nella
spiegazione di questa bizzarra teoria, bisogna dire che Charles-Louis,
barone di Mecklenbourg, rientra nella categoria di quelli che
François
Queneau ha chiamato «pazzi letterari» o
«eteròcliti»,
cioè autori editi le cui elucubrazioni, che non rimandano a
dottrine
anteriori e che non hanno avuto eco alcuna, si allontanano da tutte
quelle
professate dalla società in cui vivono e dai diversi gruppi,
benché
minimi, che la compongono.
C'è poi il caso del protagonista del romanzo Moravagine
del 1926, opera dello scrittore francese di origine svizzera Blaise
Cendrars,
che racconta di essere entrato in possesso delle «Opere
complete»
di Moravagine, ultimo discendente dei re d'Ungheria, brutto e zoppo,
rinchiuso
in un manicomio di lusso per aver sgozzato a quindici anni la sua
giovane
sposa. Fra i manoscritti, c'è un pacchetto intitolato «La
fine del mondo» contenente una sceneggiatura redatta in occasione
di un misterioso soggiorno di Moravagine sul pianeta Marte. Dopo quel
soggiorno,
Moravagine compila un dizionario dei 20.000 principali significati
dell'unica
parola di tipo onomatopeico della lingua marziana che foneticamente si
scrive: «ke-re-kö-kö-ko-kex» e che
«significa
tutto quel che si vuole».
Vediamo un altro esempio: fra le opere postume del professor
Frœppel, protagonista del romanzo omonimo dello scrittore francese Jean
Tardieu, pubblicato postumo a Parigi nel 1978, c'è l'abbozzo di
un «Dizionario delle Parole insolite della Lingua
francese»,
basato sull'onomatopea considerata «il linguaggio
perfetto».
Anche il teatro è luogo d'invenzione di lingue
onomatopeiche.
Senza scomodare di nuovo il povero Aristofane che fa dialogare gli
uccelli
con una serie di «upupoi popoi pupupopoi popoi, iu iu siu siu siu
siu, tiotiotiotiotiotiotiotio, trioto trioto totobrix,
torotorotorotorotix,
kikkabau kikkabau, torotorotorolililix, tiotiotiotiotiotiotiotinx,
totototototototototinx»
nell'omonima commedia Gli Uccelli, parliamo invece
dell'«Orghast»,
nome di una lingua inventata da Ted Hughes per la stesura del testo
drammatico
intitolato appunto Orghast, rappresentato per la prima volta in
Iran nel 1971 dagli attori del «Centre International de
Créations
Théâtrales» di Parigi diretti da Peter Brook. Su
invito
di quest'ultimo, Hughes elabora un nuovo linguaggio per dare voce,
insieme
ad altre lingue, cioè il greco, il latino e l'avestico
(cioè
un iranico antico), al mito prometeico su cui è incentrata
l'opera
teatrale. Il termine «orghast» è il frutto di due
radici
ORG e GHAST, i cui suoni sono per Hughes i rispettivi equivalenti di
«vita,
essere» e «spirito, fiamma»; quindi
«orghast»
è il nome dato al fuoco dell'essere, al fuoco in principio e
perciò
metaforicamente al sole. Creata per un gruppo di attori di
nazionalità
diversa, l'«orghast» nasce da una sperimentazione teatrale
volta alla ricerca di una forma comunicativa spettacolare che superi le
barriere linguistiche e mirata alla fondazione di un lessico teatrale
che
tenti di ritornare al livello originario del linguaggio, ovvero al
primo
impulso sonoro ed emotivo della parola. L'«orghast»
è
una lingua composta, in analogia con la musica, di toni e di suoni
senza
uno specifico significato concettuale o percettivo, articolata in base
ad un rapporto metaforico fra suoni e stati d'animo. La costituzione
dei
suoni che Hughes intende offrire agli attori come veicolo espressivo
della
narrazione mitica che va componendo, in pari tempo alla formazione
dello
spettacolo, avviene con modalità diverse. I suoni destinati ad
esprimere
azioni fisiche possono nascere onomatopeicamente, così che ad
esempio
tre diversi modi di mangiare sono espressi con GR -
«mangiare»,
KR - «divorare», ULL - «ingozzarsi». Altri
suoni
per designare oggetti o azioni si determinano attraverso il modo stesso
di presentarli: ad esempio MAMA (il cui significato è inferito,
secondo Hughes, dalla forma succhiante assunta dalle labbra) oppure
DADA,
che Hughes indica come «una persona laggiù che non mi
dà
da mangiare, è estranea e rappresenta il mondo esterno».
Infine
i suoni che corrispondono ad un'idea astratta (qui viene in mente
l'«onomatopea
astratta» di Marinetti) possono essere composti usando come
radici
suoni più semplici e fisiologicamente giustificati, come ad
esempio
KR - «divorare» che può essere generalizzato e
passare
all'idea astratta della distruzione, così che il nome del
distruttivo
re di Orghast diventa «KRogon».
4. Un altro aspetto
importante della poesia futurista,
legato
strettamente all'uso delle onomatopee, è l'irruzione travolgente
del rumore nel testo, che si accompagna alla scoperta futurista del
«suono-rumore»,
del «rumore musicale» prodotto dal fragore delle
saracinesche
dei negozi, dalle porte sbatacchianti, dal brusìo e dallo
scalpiccìo
delle folle, dai diversi frastuoni delle stazioni, delle ferriere,
delle
filande, delle tipografie, delle centrali elettriche e delle ferrovie
sotterranee.
Questa nuova «sensibilità sonora» è il
sintomo
dell'evoluzione della musica in parallelo con il moltiplicarsi delle
macchine
che ha creato «tanta varietà e concorrenza di
rumori».
Il «suono-rumore», al pari dell'onomatopea, prefigura
la struttura di un nuovo linguaggio musicale che «ricerca gli
amalgami
di suoni più dissonanti, più strani e più aspri
per
l'orecchio» come scrive Luigi Russolo nel manifesto L'arte
dei
rumori del 1913.
Per regolare la velocità dello stile, Marinetti propone
di servirsi dei «brevissimi od anonimi segni [...]
musicali»,
ponendo tra parentesi delle indicazioni come: (presto) (più
presto)
(rallentando) (due tempi), che possono anche tagliare una parola o un
accordo
onomatopeico.
Sull'universalità del linguaggio musicale scrive Francesco
Cangiullo nel testo Poesia pentagrammata del 1922:
«La Musica è
linguaggio universale, e gli uomini
che sanno
leggere uno spartito sono infinitamente più di quelli che sanno
leggere un libro nel testo originale. Perciò una poesia scritta
su carta da musica avrà, oltre il suo numero di lettori, nel
testo
originale, un infinito numero internazionale di persone (con appena una
qualche cognizione musicale) che se non la leggono nella lingua in cui
è scritta, la intendono benissimo dal lato musicale; cioè
afferrano i passaggi melodici e allegri del suo ritmo,
il chiaroscuro delle parole-note, acute e basse,
infine
il lirico disegno pentagrammato».
Ecco delinearsi qui un
altro possibile legame fra
futurismo e
lingue immaginarie, in questo caso le lingue d'invenzione basate sulle
note musicali.
Fin dall'antichità, la musica è stata vista come
un linguaggio «puro», insieme a quello matematico, dotato
del
carattere di universalità e quindi libero dalle imperfezioni e
ambiguità
delle lingue locali.
Nel Trattato delle cifre, o segreti modi di scrivere del
1586, Blaise de Vigenère afferma che la musica, mascherata in
forma
di cifra, può servire a formare quanti alfabeti si vuole.
Fra i molti linguaggi musicali inventati possiamo ricordare
quello
delle classi superiori della Luna che comunicano i loro pensieri
attraverso
una differenza di toni non articolati, raccontato da Savinien de Cyrano
de Bergerac nel romanzo L'altro Mondo o gli Stati e gli Imperi
della
Luna, pubblicato postumo nel 1657, dove si legge:
Dovete sapere che in quel paese
[la Luna, n.d.r.] si usano due
lingue,
delle quali una è riservata ai grandi e l'altra al popolo.
Quella
dei grandi non è altro che una differenza di toni non
articolati,
press'a poco simile alla nostra musica, quando non vi sono aggiunte le
parole. E' certamente un'invenzione nell'insieme molto utile e
gradevole;
perché quando sono stanchi di parlare o quando non si degnano di
abbassare la bocca a tale uso, prendono ora un liuto, ora un altro
strumento
di cui si servono altrettanto bene che della voce per comunicarsi i
pensieri;
di modo che possono incontrarsi a volte più di quindici o venti
persone per discutere su un argomento di teologia, o sulle
difficoltà
di un processo, e lo fanno con il più armonioso concerto che
sappia
allietare l'orecchio.
Se gli abitanti della Luna
parlano un linguaggio
musicale, i loro
libri non possono che essere «sonori». Ecco come Cyrano de
Bergerac spiega la natura di alcuni volumi scritti in lingua lunare:
All'apertura della scatola,
trovai dentro un non so che di
metallico
quasi in tutto simile ai nostri orologi, pieno di un numero infinito di
piccole molle e congegni impercettibili. Effettivamente è un
libro,
ma un libro prodigioso che non ha né fogli né caratteri.
Insomma è un libro dove, per leggere, gli occhi non servono, ma
si ha bisogno solo degli orecchi. Quando qualcuno dunque desidera
leggere,
carica, con una gran quantità di ogni specie di chiavi, quella
macchina,
poi volge l'ago sul capitolo che desidera ascoltare, e subito escono da
quel congegno come dalla bocca di un uomo, o da uno strumento musicale,
tutti suoni distinti e differenti che servono, tra i notabili della
Luna,
all'espressione del linguaggio.
Sulla sponda dei linguaggi
musicali incontriamo anche
Niels Klim,
protagonista del romanzo di Ludvig Holberg intitolato Il viaggio
sotterraneo
di Niels Klim del 1741. Il nostro Klim visita gli abitanti della
Terra
musicale che sono strumenti musicali, per lo più contrabbassi (i
bambini hanno l'aspetto dei violini), descrivendoli così: nella
parte superiore hanno un collo lungo con una piccola testa, il corpo
è
stretto e compatto, rivestito di una corteccia levigata, in modo che
tra
essa e il corpo rimane uno spazio vuoto; sopra l'ombelico hanno un
pettine,
ovvero una sella con quattro corde, che poggia su un solo piede,
cosicché
tutti corrono saltellando su una sola gamba. Gli abitanti della Terra
musicale
si esprimono attraverso i suoni prodotti dal movimento di un archetto
sulle
proprie corde. Una discussione sul prezzo delle merci somiglia ad una
sinfonia:
un suono «grave» rappresenta il preludio del dialogo,
lunghe
assonanze la contrattazione vera e propria, infine un «piacevole
presto» indica la felice conclusione dell'affare.
Sono musicali anche nel nome i Solasi, macchine intelligenti
formate da elementi inorganici che abitano l'asteroide di Faremido, di
cui parla lo scrittore ungherese Frigyes Karinthy nel romanzo Viaggio
a Faremido del 1916. Naturalmente i Solasi parlano fra loro
mediante
la musica perché ogni altro tipo di comunicazione è
considerato
troppo inferiore alle loro elevate caratteristiche intellettuali. I
Solasi
considerano tutto ciò che è organico, e in particolare
l'uomo,
come «dosire», ossia un germe, una forma patologica e
innaturale
di esistenza.
Anche nella fantascienza troviamo spesso dei linguaggi alieni
di tipo musicale, come il «meccanese», lingua costituita da
una difficile scala di fonemi musicali, usata per la comunicazione
uomo-macchina
da un gigantesco computer - indicato genericamente come «la
Macchina»
- che regola il mondo ed assoggetta gli umani al proprio volere. Basato
sul «principio di economia» per cui ad ogni sillaba
corrisponde
una frase, il «meccanese» usa 50 diversi gradi
d'intensità
musicale ed il suo vocabolario complessivo è costituito da
più
di un miliardo di monosillabi. Tutto questo sta in un racconto del
1965, Il
figlio delle stelle, di Frederik Pohl e Jack Williamson.
Fra i progetti di lingua universale basati sulla musica,
elaborati
con scopi comunicativi, uno dei più famosi è il
«Solrésol»
di Jean-François Sudre pubblicato postumo a Parigi nel 1866. Le
sette note musicali, segni uniformi, invariabili e veramente
universali,
possono usarsi in sette modi diversi, costituenti altrettante forme del
«Solrésol», e cioè si possono: 1) enunciare o
scrivere i nomi internazionali di queste note o soltanto le loro
iniziali
(«s»=si; «so»=sol; ecc.); 2) cantare o suonare
su un qualsiasi strumento; 3) scrivere su un pentagramma; 4)
rappresentare
con sette segni stenografici speciali, scritti o disegnati in aria con
un dito; 5) raffigurare con le sette prime cifre arabe o con un
corrispondente
numero di colpi sonori, di pressioni tattili, ecc.; 6) rappresentare
per
mezzo dei sette colori dello spettro mediante fuochi, lanterne, ecc.);
7) designare toccando con l'indice della mano destra le quattro dita
della
mano sinistra o i loro intervalli che sostituiscono in questo caso il
pentagramma
musicale.
La frase: «Dorela faremi sirelasi, doremmi, doreffa,
doressol» significa: «L'anno è composto di
giorni,
di settimane, e di mesi». Le parole sono di 1, 2, 3, 4 o 5
sillabe
essendo formate dalla combinazione di 1, 2, 3, 4 o 5 note. Le
combinazioni
di 1 e 2 note sono le particelle e i pronomi («si»=si;
«do»=no;
«re»=e; «refa»=suo; «dore»=io;
«domi»=tu;
ecc.); quelle di 3 note sono le parole più in uso
(«doredo»=tempo;
«doremi»=giorno; «dorefa»=settimana; ecc.);
quelle
di 4 note sono distribuite in 7 classi o «chiavi» (la
chiave
di «do» appartiene all'uomo fisico e morale; quella di
«fa»
alla campagna, ai viaggi, alla guerra e alla marina; ecc.); quelle di 5
note forniscono la nomenclatura dei tre regni: animale, vegetale e
minerale.
Il contrario di un'idea si esprime capovolgendo l'ordine delle sillabe
della parola corrispondente: così «misol»=il bene e
«solmi»=il male; «Domisol»=Dio, mentre
«Solmido»=Satana.
Fra gli estimatori del «Solrésol» figurano
Napoleone III, Victor Hugo, Alphonse de Lamartine, il filosofo e
linguista
tedesco Wilhelm K. von Humboldt e suo fratello Alexander, famoso
naturalista
e geografo.
5. Detto ciò, merita
soffermarci brevemente su un
altro
punto non marginale dell'invenzione linguistica dei futuristi. Nel
manifesto-sintesi
del 29 giugno 1913 intitolato L'antitradizione futurista,
Guillaume
Apollinaire, accanto alle espressioni: DINAMISMO PLASTICO PAROLE IN
LIBERTÀ,
scrive in neretto maiuscolo: INVENZIONE DI PAROLE.
Le tavole parolibere sono costellate di parole inventate,
misteriose,
fantastiche, che vanno al di là della stessa intenzione
onomatopeica,
più adatte ad esprimere quel «labirinto di sensazioni
improntate
alla più esagerata originalità» che i futuristi
vagheggiano
per far dimenticare la monotonia della vita quotidiana.
Nella tavola parolibera intitolata Après la Marne,
Marinetti riproduce con un linguaggio arbitrario e non onomatopeico il
dinamismo della ruota di un'automobile arricchendo il testo con parole
come: «mocastrinar», «fralingaren»,
«vronkap»,
«falasò», «viamelokranu».
Per la Discussione di due critici sudanesi sul futurismo,
testo basato su un «linguaggio-rumore» espressivo,
assolutamente
inventato, letto insieme a Marinetti e Cangiullo intorno ad un
pianoforte
scordato il 29 marzo del 1914 alla galleria romana di Giuseppe
Sprovieri,
Giacomo Balla appunta in un taccuino queste parole:
Farcionisgnaco gurninfuturo
bordubalotapompimagnusa sfacataca
mimitirichita
plucu sbumu farufutusmaca sgnacgnacgnac chr chr chr
stechestecheteretete
maumauzizitititititititi.
In Verbalizzazione
astratta di signora,
pubblicata a Roma
nel 1916, Depero usa molte parole inventate come: «ROSLUCI,
ACUCI,
VIDICIP, CILOPIC» oppure «ESEORIALACAMI, ONOEFICICABALA,
NOTIBACILOFRONICHI,
MISIBERONICO, LA MANISECHERÒ, CHIRULLIMACONI».
Ci siamo così avventurati nel campo di ciò che
Marinetti nel manifesto su Il Teatro di Varietà del 1913
ha chiamato il «meraviglioso futurista» prodotto, fra
l'altro,
da «tutte le nuove significazioni [...] della parola, coi loro
prolungamenti
misteriosi e inesplicabili nella parte più inesplorata della
nostra
sensibilità» (sembra quasi un'allusione all'inconscio
freudiano).
Se poi le parole inventate sono tante e tali da formare delle
poesie «metasemantiche», come nelle Gnòsi delle
Fànfole
di Fosco Maraini, allora l'effetto di spaesamento positivo è
veramente
forte. L'antesignano di questi esperimenti linguistici è Lewis
Carrol
che fa leggere ad Alice, nel libro Attraverso lo specchio, una
poesia
con parole che la piccola non conosce.
6. L'ultimo aspetto che
vogliamo evidenziare della
poetica futurista
riguarda il linguaggio matematico. L'amore della precisione e della
brevità
arricchisce i futuristi di una nuova sensibilità numerica, di un
gusto particolare per i numeri. I segni matematici « + - x
=»
servono ad ottenere meravigliose sintesi e concorrono, con la loro
semplicità
astratta d'ingranaggi anonimi, a dare lo splendore geometrico e
meccanico.
«Invece di dire, come
qualsiasi scrittore tradizionale: "un
vasto e profondo rintocco di campana" (notazione imprecisa e
perciò
inefficace) - scrive Marinetti nel Manifesto del 1914 - [...] io
afferro
con precisione intuitiva la potenza del rimbombo e ne determino
l'ampiezza,
dicendo: "campana rintocco ampiezza 20 kmq."»
Di nuovo, dopo quello
musicale, Marinetti esalta le
qualità
di un altro linguaggio «universale» per antonomasia: quello
matematico. Fin dal XVI secolo, gli sviluppi degli studi matematici
favoriscono
le ricerche tendenti alla costruzione di una lingua perfetta
poiché
il rigore e la chiarezza del simbolismo matematico sono visti come
strumenti
idonei ad eliminare ogni confusione linguistica. In questo periodo
prende
campo l'idea che vi siano cose conoscibili scientificamente, che non
sono
nominabili nelle lingue storiche, ma solo esprimibili nel linguaggio
matematico,
come sostiene, fra gli altri, il nostro Galileo Galilei.
«Con la matematica,»
- ha scritto recentemente il
matematico
francese
René Thom, il cui nome è legato alla teoria delle
catastrofi
- «troviamo effettivamente il candidato ideale per incarnare la
lingua
universale; sintassi praticamente pura, essa genera il suo significato
dalle sue stesse costruzioni».
Di esempi di lingue
artificiali su base numerica, dove
generalmente
ad ogni numero corrisponde una lettera, una parola od una radice di una
determinata lingua, è disseminata la storia delle lingue
immaginarie,
a partire dalla pasigrafia numerica proposta nel 1657 dal parroco
inglese
Cave Beck in cui le combinazioni dei numeri arabi da 0 a 9, esprimenti
tutti i termini primitivi di varie lingue, sono disposte in ordine
progressivo
da 1 a 10.000. Ad ogni numero corrisponde un termine di ogni lingua
considerata
in modo da formare un «dizionario numerico» ed un
«dizionario
alfabetico», che funzionano l'uno da chiave dell'altro.
Nell'introduzione
al suo libro, Beck scrive che la nuova lingua, oltre che un utile
strumento
per il commercio civile e per la propagazione della vera religione,
può
liberare le lingue naturali dai termini equivoci, dalle variazioni
anomale
e dai sinonimi superflui.
Ecco un altro esempio di linguaggio matematico. La fraseologia
dei Laputiani, abitanti di Laputa, isola volante o galleggiante,
posizionata
sopra l'isola di Balnibarbi nel Pacifico settentrionale, di cui parla
il
capitano Lemuel Gulliver, protagonista del libro di Jonathan Swift I
viaggi di Gulliver del 1726, dipende in gran parte dalla
matematica
e dalla musica. Le idee dei Laputiani si aggirano sempre fra linee e
figure.
Ad esempio, volendo lodare la bellezza di una donna, o di qualunque
altro
vivente, i Laputiani la descrivono con rombi, circoli, parallelogrammi,
ellissi ed altri termini presi in prestito dalla geometria o con
vocaboli
dell'arte musicale. La cerchia dei loro pensieri e del loro intelletto
è tutta racchiusa nei limiti della matematica e della
musica.
Di linguaggio matematico parla anche Carlo Dossi nelle Note
Azzurre dove afferma:
«Noi siamo indirizzati
verso la lingua universale, che
sarà
quella dei numeri» poiché «i numeri sono i soli
segni
che giungano ad esprimere certe idee astratte... E l'astratto guadagna
ogni dì più la mano [...]. Chi va formando la lingua
universale,
è la scienza, perché essa ha bisogno, per progredire, di
termini conosciuti da tutti [...]».
Suggestiva appare la
proposta del matematico olandese
Hans Freudenthal
che nel 1960 pubblica un libro intitolato Lincos, abbreviazione
che sta per «LINgua COSmica», nome di un linguaggio
interspaziale
elaborato su base logico-matematica per comunicare con eventuali
abitanti
di altre galassie. Usando come segnali delle onde radio di diversa
durata
e lunghezza, Freudenthal presume che gli alieni siano in grado di
interpretare
i messaggi inviati loro, riuscendo a comprendere che, ad esempio,
quattro
impulsi (....) significano il numero quattro, oppure a decifrare gli
operatori
aritmetici e le principali operazioni matematiche (...<....,
...=...,
....+..=......, ecc.), a familiarizzare con la numerazione binaria del
tipo: .=1, ..=10, ...=11, ....=100, .....=101, ecc., e quindi, alla
fine,
a risolvere frasi come queste: «Ha Inq Hb ?x 2x = 5, Hb Inq Ha
5/2,
Ha Inq Hb Ben» che significano: «Ha dice a Hb: Che
cos'è
la x tale che 2x = 5?, Hb dice a Ha: 5/2, Ha dice a Hb: Bene».
Fra gli inventori di un linguaggio universale su base numerica
c'è perfino un disegnatore umoristico: François Lejeune,
meglio conosciuto con lo pseudonimo di Jean Effel, che nel 1968
pubblica
lo scritto intitolato: Progetto di massima per una scrittura
universale
in cui avanza l'idea di una lingua universale basata sui numeri, sui
segni
matematici e su altri simboli conosciuti internazionalmente.
7. Dopo quanto abbiamo
detto sul
«paroliberismo»,
risulta chiaro che l'immaginazione senza fili di Marinetti,
poiché
si realizza in una sorta di partitura musicale, esige speciali
declamatori
per essere animata. La liberazione dell'ortografia e della tipografia
sollecita
un'esuberanza comunicativa che coinvolge la mimica facciale e la
gesticolazione
del narratore. Le parole in libertà diventano per Marinetti il
prolungamento
lirico e trasfigurato del nostro magnetismo animale. Solo le smorfie
del
viso e la forza scultoria e cesellante dei gesti sono capaci di
riprodurre
e rendere vivi le sproporzioni dei caratteri tipografici.
L'importanza della gestualità per il nuovo lirismo
futurista,
espressione dello splendore geometrico, è consacrata da
Marinetti
nel manifesto del 1916 intitolato La declamazione dinamica e
sinottica
dove vengono esaltati «i trucchi più perfezionati della
mimica
facciale e dei gesti».
«Il declamatore futurista
deve declamare colle gambe
come colle
braccia.» - scrive Marinetti - «Questo sport lirico
obbligherà
i poeti ad essere meno piagnucolosi, più attivi, più
ottimisti.»
Certo, quella a cui pensa
Marinetti non è la
gesticolazione
del direttore d'orchestra che cadenza le frasi o quella decorativa del
tribuno o peggio ancora quella languida di una prostituta sul corpo di
un amante stanco, ma una gesticolazione geometrica, disegnante e
topografica
che sinteticamente crei nell'aria dei cubi, dei coni, delle spirali,
delle
ellessi.
Alla luce di queste precisazioni, va rilevato come Marinetti
attribuisca un ruolo significativo al linguaggio gestuale, anch'esso
fonte
di creazione di lingue artificiali (si pensi ad esempio a quelle dei
sordomuti,
dei monaci trappisti o degli indiani sioux dell'America del Nord che,
pur
disponendo di una lingua parlata naturale, hanno sviluppato un
linguaggio
gestuale comprendente 450-500 segni, quasi tutti eseguiti con le mani,
immobili o in movimento, con il volto e con le posizioni della
testa).
Ora, è cosa nota che già presso gli antichi le
rappresentazioni mimiche sono apprezzate per il loro carattere di
comunicazione
universalmente comprensibile. In un trattato sulla danza, Luciano di
Samòsata
parla di un re orientale che, avendo visto le esibizioni di un
pantomìmo
alla corte dell'imperatore romano Lucio Domizio Nerone, lo chiede in
dono
per impiegarlo come interprete presso le nazioni asiatiche, con le
quali
non può commerciare per colpa della diversità delle
lingue.
La convinzione di una superiorità del linguaggio gestuale
come «linguaggio generale della natura umana» è cosa
antica: ad esempio la si trova già espressa nel libro di John
Bulwer Chirologia:
o il Linguaggio Naturale della Mano del 1644, dove il linguaggio
gestuale
è considerato la forma originaria del linguaggio, propria di
Adamo
e dell'umanità primitiva.
Passando a esperienze più ludiche, si ricorderà
che nel capitolo XIX del Libro secondo del Gargantua e Pantagruele
di François Rabelais assistiamo a una conversazione a segni fra
Thaumaste, gran dottore d'Inghilterra, e Panurge, inseparabile compagno
di Pantagruele. Quando ad esempio Thaumaste comincia a gonfiare le gote
come un suonatore di piva e a soffiare come se stesse gonfiando un
budello
di porco, Panurge risponde mettendosi un dito della mano sinistra sul
buco
del sedere e con la bocca aspira l'aria come quando si mangiano le
ostriche
al guscio, o quando si tira su la zuppa; dopo di che apre la bocca e ci
batte sú per sedici volte con la palma della mano destra,
facendo
così un gran suono profondo come se venisse dalla superficie del
diaframma, per la trachea arteriale. Molti dei segni descritti in
questo
episodio hanno un evidente significato osceno.
Di un linguaggio gestuale, coinvolgente tutto il corpo umano
ed articolato in vari movimenti, si servono anche le classi popolari
della
Luna per comunicare fra loro nel romanzo, già citato, di Cyrano
de Bergerac L'altro Mondo o gli Stati e gli Imperi della Luna
dove
si legge:
Il muovere per esempio un dito,
una mano, un orecchio, un
labbro, un
braccio, una guancia, significheranno ciascuno un particolare discorso,
o un periodo in tutte le sue parti. Altri movimenti non servono che a
indicare
parole, come una ruga sulla fronte, i diversi fremiti dei muscoli, i
rovesciamenti
delle mani, il battere di un piede, le contorsioni delle braccia; di
modo
che quando parlano, con l'abitudine che hanno di andare in giro nudi,
le
loro membra abituate a gesticolare i pensieri si muovono così
rapidamente
che non sembra sia un uomo che parla ma un corpo che trema.
Ma il nostro excursus non
finisce qui: non possiamo non
citare
il «grondo», la lingua di tipo gestuale degli abitanti
dell'isola
di Cantahar, vicina al Capo di Buona Speranza, di cui racconta De
Varennes
de Mondasse nel romanzo La scoperta dell'Impero di Cantahar del
1730. Per salutare un abitante «superiore» di Cantahar si
deve
mettere una mano al petto e poi a terra, per manifestargli la
volontà
di strisciare ai suoi piedi; ad un «inferiore» invece si
poggiano
le mani sulla fronte, gesto che significa «ti ricordo». Una
donna si saluta incrociandosi le braccia sul petto, mentre un uomo
solleticandogli
il gomito.
Ci sono poi gli abitanti di Rondisle, isola dell'Oceano Indiano,
di cui riferisce Pierre Duplessis nel romanzo Memorie di Sir George
Wollap, pubblicato negli anni 1787-1788, che parlano una lingua che
è un miscuglio di portoghese e francese e usano diversi gesti
per
indicare il loro stato d'animo. Per dimostrare amicizia essi
introducono
un dito nell'orecchio dell'interlocutore ed esprimono felicità e
piacere sputandogli in mano o facendogli crocchiare le dita.
Un'altra curiosità: nel 1887 il russo Vikéntij
I. Scherzl pubblica a Mosca il libro La lingua universale ed il
linguaggio
dei gesti in cui descrive il progetto di una lingua basata sui
gesti,
sulle interiezioni e sulle onomatopee che forse sarebbe piaciuta a
Marinetti.
Più recentemente lo statunitense Stephen Streeter ha
elaborato
una lingua internazionale parlabile mediante 72 gesti differenti che le
mani possono compiere.
Sul piano della ricerca teatrale, grande importanza al linguaggio
gestuale viene attribuita da Atonin Artaud che, in una lettera del
1932,
a proposito del «linguaggio di scena» discusso nel suo
primo
manifesto su Il teatro della crudeltà, scrive:
Si tratta di sostituire al
linguaggio articolato un linguaggio
di natura
diversa, le cui possibilità espressive equivarranno al
linguaggio
delle parole, ma la cui fonte si troverà in un punto più
nascosto e più remoto del pensiero. La grammatica di questo
nuovo
linguaggio è ancora da trovare. Il gesto è la materia e
l'essenza;
se si preferisce, l'alfa e l'omega. Parte dalla NECESSITÀ della
parola,
molto più che dalla parola già formata. Ma, trovando
nella
parola un intralcio, ritorna spontaneamente al gesto.
Queste considerazioni di
Artaud nascono dal suo amore
per il teatro
orientale, in particolare per quello balinese. E qui il nostro discorso
non può che volare verso il linguaggio del Kathakali, genere
teatrale
fondato sulla mimica del volto e sulla gestualità della mano,
nato
nella regione del Kerala in India e risolto nella sua forma moderna
verso
la metà del Settecento. Il Kathakali è costituito da un
insieme
di 24 unità di base chiamate «hasta-s», segni
materializzati
dal gioco delle dita che funzionano come lettere dell'alfabeto. Prese
singolarmente,
le
«hasta-s» non hanno alcun significato, ma diventano
significative
se combinate fra loro. Nel contesto della rappresentazione teatrale
ogni
singola «hasta» si trasforma in parola, fungendo da
sostantivo,
verbo, aggettivo, prefisso, suffisso e plurale.
8. Fra le multiformi
indagini che intraprende sui moduli
comunicativi,
sonori e visuali, Marinetti non dimentica il tatto. Nel 1921 pubblica
il
manifesto Il Tattilismo in cui esprime «la
necessità
di trasformare la stretta di mano, il bacio e l'accoppiamento in
trasmissioni
continue del pensiero» e formula una scala di valori tattili
distinguendo
fra un tatto «sicurissimo, astratto, freddo» o «senza
calore, persuasivo ragionante», «eccitante, tiepido,
nostalgico»
da un tatto invece «quasi irritante, caldo, volitivo»,
«morbido,
caldo, umano» od ancora «sensuale, spiritoso,
affettuoso».
Sulla base di questa catalogazione, Marinetti crea delle
«tavole
tattili astratte o suggestive» per intraprendere quelli che
chiama
«viaggi di mani». Ecco come Francesco Cangiullo descrive le
tavole tattili di Marinetti, presentate durante una serata futurista al
teatro «Politeama Rossetti» di Trieste nell'inverno 1922:
Queste tavole tattili erano
«dei pezzi di cartone per lo
più
rettangolari, dai cinquanta ai settanta centimetri di lunghezza, sui
quali
la Nina e la Marietta [cioè le sorelle Angelini, cameriere di
Marinetti],
sotto la direzione architettonica dell'autore, attaccavano peluche,
carta
vetrata, carta d'argento, spugne, pietre pomici, piumini di cipria, ed
altri svariati oggetti e ingredienti, secondo le sensazioni che si
volevano
dare. All'uopo, l'autore prescriveva occhi e bocca chiusi e udito
otturato
onde potesse maggiormente svilupparsi il senso del tatto; anche
l'olfatto
occorreva per l'eventuale percezione degli odori e, parlando con
creanza,
dei puzzi, come efficacia; ma parlavano espressamente al tatto, le
tavole
di Marinetti. Si toccavano, e toccandole sapientemente, il poeta
riusciva
a darvi nel modo più raffinato e suggestivo (all'occorenza anche
brutale), mediante il vostro, ancora una volta, tatto, sensazioni
artistiche
di gioia, di mare, d'amore, di lusso, di forza, di guerra, emozioni di
nostalgie, ecc.»
Ancora una volta
un'intuizione di Marinetti - il
tattilismo -
ci proietta nell'affascinante mondo delle lingue inventate. Senza
dimenticare
i sistemi di comunicazione per non udenti-non vedenti che usano le
sensazioni
tattili come il cosidetto «Tadoma», sistema elaborato in
Norvegia
nell'ultimo decennio del XIX secolo, grazie al quale il contenuto di un
discorso è percepito ponendo una mano contro il volto del
parlante
e controllando i movimenti articolatori in atto (il nome
«Tadoma»
deriva dalla sua prima applicazione pratica, avvenuta negli Stati
Uniti,
con due bambini non udenti-non vedenti, Tad Chapman e Osma Simpson), si
ricorderà come nel romanzo del reverendo e pedagogo inglese
Edwin
Abbott, intitolato Flatlandia, pubblicato anonimo nel 1882, gli
esseri a due dimensioni (quadrati, triangoli, ecc.) che vivono su
Flatlandia,
mondo bidimensionale, piatto come un foglio di carta, oltre che con la
loro lingua, comunicano e si riconoscono «tastandosi i
lati».
Di un linguaggio tattile si servono anche i
«Formiciani»,
una classe evoluta d'insetti, nel romanzo di Raymond de Rienzi I
Formiciani,
romanzo dell'era secondaria (1932).
Ancora da menzionare è il linguaggio degli Athshiani,
popolo dei sognatori che abita il pianeta Athshe, di cui riferisce
Ursula
Le Guin nel romanzo La parola per mondo è foresta del
1972,
che è un linguaggio tattile. La carezza come segnale e come
rassicurazione
è altrettanto essenziale negli Athshiani «quanto lo
è
tra madre e figlio o tra due amanti», ma il suo peso ha un valore
sociale e non solo materno o sessuale. Una carezza, come ogni altro
contatto,
segue pertanto dei modelli, è codificata, e tuttavia resta
infinitamente
modificabile.
Nel romanzo dello scrittore statunitense John Herbert Varley La
persistenza della visione del 1978, una comunità di persone
cieche e sorde comunicano usando il tatto, compreso quello degli organi
sessuali.
* * *
Relazione tenuta nel gennaio 1995 in occasione della mostra Marinetti e il futurismo a Firenze. Qui non si canta al modo delle rane svoltasi presso la Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze dal 19 dicembre 1994 al 21 gennaio 1995.
Questo testo è citato
nel libro Gli altri futurismi.
Futurismi e movimenti d'avanguardia in Russia, Polonia, Cecoslovacchia,
Bulgaria e Romania, a cura di Giovanna Tomassucci e Massimo
Tria, Atti del convegno Internazionale, Pisa, 5 giugno 2009, Edizioni
Plus - Pisa University Press, Pisa, 2010, p. 109.
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