PER ESSERE SCRITTORE SERVE UN BUON DRINK
«O Bottiglia /
di misteri / tutta piena, / della vena / tua divina / versa in questa / orecchia
sola / la veridica parola. / […] Col deifico liquore / che racchiudi, Bacco dà
/ allegrezza e verità.». È forse l’elogio del vino più affascinante e originale
della letteratura di tutti i tempi, dove le parole sono scritte sulla pagina in
modo da raffigurare visivamente la forma di una bottiglia. La “divina Bottiglia”
si trova nel Gargantua e Pantagruele (prima edizione nel 1532) di
François Rabelais (il brano citato è tratto dalla mirabile traduzione di
Augusto Frassineti). A Rabelais è attribuito anche un Trattato sul buon uso
del vino, ritrovato nella Biblioteca del Museo Nazionale di Praga, in cui bere
vino, accanto al parlare smodato e alla preghiera ardente, è descritta come l’attività
che distingue l’uomo dagli altri esseri viventi. Di
Rabelais, ahimè, non c’è traccia in Bere come un vero scrittore, curato
da Margaret Kaplan, editor laureatasi alla School of Arts della Columbia
University di New York. Il libro, arricchito dalle efficaci illustrazioni di
Jessica Fimbel Willis, riporta, come recita il sottotitolo, 100 ricette per
ricreare i drink che hanno ispirato i grandi della letteratura. Naturalmente
un riferimento al vino c’è, e non potrebbe essere altrimenti se pensiamo che
Marguerite Duras, autrice de L’amante, si scolava fino a otto litri di
Bordeaux al giorno, o che Alice Munro, premio Nobel per la letteratura nel 2013,
ama accompagnare la cena con un bicchiere di Sauvignon Blanc freddo o ancora
che l’amicizia fra il romanziere britannico Julian Barnes, quello de Il
pappagallo di Flaubert, e Jay McInerney, autore di Le mille luci di New
York, è nata grazie alla comune passione per il vino, specie per i Sangiovese
toscani, i Cabernet Ridge e gli Châteauneuf-du-Pape. Il
libro si concentra più che altro sui drink. È una succosa carrellata, raccontata
in modo cronologico, sui drink amati, e a volte inventati, da scrittori famosi.
Così, dopo aver presentato all’inizio, in forma di disegno, un campionario di
attrezzi necessari (shaker, mixing glass capiente, bar spoon, pestello, bastoncini,
spremiagrumi, ecc.) e annotato i liquori indispensabili da tenere in cucina (si
va dall’acquavite di mele Laird alla Żubrówka, vodka polacca con erba del
bisonte) per farsi un ottimo drink, si comincia niente meno che con William Shakespeare
che in alcune sue opere accenna al metheglin, o idromele speziato, un vino
di miele fermentato, arricchito di zenzero, limone, chiodi di garofano,
cannella e lievito di birra. Ai tempi del “Bardo”, la bevanda era considerata
un tonico per la salute. Dopo
un ampio salto temporale planiamo dritti dritti nel XIX secolo dove s’incontra
la variante francese dell’Hot Toddy, bevanda calda a base di sidro di mele,
calvados, brandy all’albicocca, panna al 35% di grassi e cannella macinata, prediletta
da Gustave Flaubert (non preoccupatevi: se vi viene voglia di rifare i drink,
la curatrice fornisce in modo dettagliato dosi e modalità d’uso). In
Bere come un vero scrittore scopriamo che il pittore preraffaelita Dante
Gabriel Rossetti amava mischiare l’idrato di cloralio, droga ipnotica per la
cura dell’insonnia, con un sorso di whiskey, mentre altri scrittori – Charles
Baudelaire, Paul-Marie Verlaine, Arthur Rimbaud, Colette, Oscar Wilde, Guillaume
Apollinaire e Alfred Jarry – si perdevano dietro l’assenzio, «la fata verde», servito
preferibilmente con acqua fredda e una zolletta di zucchero. Dico di preferenza
perché in realtà Jarry lo beveva puro, Rimbaud ci associava un pizzico di
hashish, mentre Baudelaire, che in una sua poesia incita “a essere sempre
ubriachi” («Per non sentire l’orribile fardello del tempo»), lo mescolava con
laudano e oppio. Secondo
la Kaplan si deve a Mark Twain l’uso di bere cocktail così come li conosciamo
oggi; lui adorava il whisky con limone e zucchero. Il “gin rickey”, a base di gin,
succo di lime e acqua gassata, era la bevanda preferita da Francis Scott
Fitzgerald. Quanto a James Joyce, da buon irlandese, beveva Irish Coffee. Agli
alcolici, di cui conosceva potenzialità e rischi («Un uomo può darsi al bere
perché si sente un fallito e poi fallire ancor più completamente perché beve»),
George Orwell preferiva una bella tazza di tè, senza zucchero. Il
libro documenta i famosi cocktail caraibici inventati da Ernest Hemingway, le
bevande che appassionarono William Faulkner, Ian Fleming, John Steinbeck, Jack
Kerouac, Charles Bukowski, Truman Capote, ecc., e arriva fino alle preferenze
alcooliche di scrittrici/scrittori dei nostri giorni, a volte suggerendo varianti
o integrazioni ai loro drink. E
i russi? Che peccato! Nessun scrittore russo compare nel libro. Eppure, ad
esempio, secondo quanto scrive Paolo Nori introducendo Mosca-Petuškì poema
ferroviario (1973) di Venedikt Erofeev, scrittore di culto morto nel 1990, una
volta chiesero a un conoscente di Erofeev: «Che cosa fa adesso, Erofeev?»; la
risposta fu: «Come cosa fa? Beve. Passa le giornate a bere».
Bere come un vero scrittore a cura di Margaret Kaplan traduzione di Camilla Pieretti il Saggiatore, pagg. 296, € 15,90
Domenica - Il Sole 24 Ore, N. 341, 12 dicembre 2021, p. XVI.
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