«Solo
coloro che sono abbastanza folli da poter pensare di cambiare il mondo
lo cambiano davvero». Questa affermazione di Albert Einstein è in esergo
al prologo di Solo i folli cambieranno il mondo. Arte e pazzia,
titolo-manifesto che è tutto un programma, un libro di Lamberto Maffei,
già presidente dell’Accademia nazionale dei Lincei, professore emerito
di Neurobiologia alla Scuola Normale di Pisa.
La follia di cui parla Maffei è intesa come pensiero
eccentrico, deviante, bizzarro, irregolare (mi piace il termine
“irregolare”, mi ricorda scrittori come Giovanni Faldella o Antonio
Delfini), è la diversità di coloro che escono dal gregge delle pecore
della globalizzazione del pensiero dominante, che rompono le regole
istituzionalizzate, l’ordine culturale costituito per seguire strade
innovative, spericolate, dai più giudicate per l’appunto folli. Da
questo punto di vista gli esempi di artisti e di scienziati ritenuti un
po’ folli sono numerosi, a partire dall’antichità, se è vero che Diogene
di Sinope, quello che viveva in una botte, comportamento un tantino
anomalo, fu chiamato «il Socrate pazzo».
Maffei ne racconta alcuni, di questi esempi, concentrandosi in
particolare nel campo artistico. Si va dal più geniale dei folli, cioè
Wolfgang Amadeus Mozart, bambino prodigio, considerato la migliore droga
per essere felici, che forse aveva una sindrome di Tourette o una forma
di leggero autismo, alternando una frenetica attività, anche sessuale, a
periodi più melanconici, al caso ben noto di Vincent Van Gogh, dai
pittori schizofrenici dell’Art Brut, collezionati da Jean Dubuffet,
all’esperienza manicomiale di Antonio Ligabue e alla misteriosa forma di
demenza di cui soffrì il compositore Maurice Ravel, autore del famoso
Boléro, fino ai tormenti e alle pulsioni contrastanti dei pittori della
secessione viennese: Gustav Klimt, Oscar Kokoschka e Egon Schiele, le
cui opere indagano la parte più nascosta dell’essere.
Maffei ricorda anche la poetessa Alda Merini,
internata per la prima volta a 16 anni con la diagnosi di un disturbo
bipolare o psicosi maniaco-depressiva, che subirà nell’arco della sua
vita vari ricoveri. «Ero matta in mezzo ai matti. / I matti erano matti
nel profondo, / alcuni molto intelligenti», scrive la Merini in una sua
poesia. La poetessa ebbe una storia d’amore travolgente con lo scrittore
Giorgio Manganelli. Finita la loro storia, frequentarono entrambi lo
stesso psicoanalista, Cesare Clivio. Racconta la figlia dello scrittore,
Lietta, che un giorno Clivio telefonò alla moglie del Manga:
«Buongiorno, sono il dottor Clivio, suo marito è qui da me, stiamo
parlando da un’ora e, a questo punto, non capisco più se il matto è lui o
se il matto sono io».
Questo per dire quanto il confine tra normalità e
follia sia labile e incerto, e quanto la creatività non sia quasi mai
disgiunta da un pizzico di estrosa follia.
L’intelligenza non è unica, ricorda Maffei citando un
saggio dello psicologo Howard Gardner. Esistono sette tipi di
intelligenza: logico-matematica, linguistica, musicale, spaziale,
corporea-cinestetica, interpersonale, interpersonale, intrapersonale, e
chissà quante altre, aggiungo io da profano. Ciò spiega perché vi siano
persone famose nella loro professione che, tuttavia, si rivelano assai
povere in altri campi.
La malattia, osserva Maffei, può essere un
chiavistello che apre spiragli alle forze dell’inconscio, grande
ripostiglio che comprende i traumi dell’infanzia e anche quelli della
vita adulta. La malattia psichica, in particolare, rende più efficace il
grido del diverso, la rivolta contro l’omologazione del pensiero. Ne
erano convinti anche i surrealisti, citati da Maffei, che teorizzarono
nei loro manifesti la necessità di una fuga dal razionale. Al riguardo
mi sarei aspettato da Maffei un riferimento agli studi del giovane
Raymond Queneau, all’inizio simpatizzante del movimento surrealista, sui
cosiddetti «folli letterari», autori editi le cui elucubrazioni si
allontanano da tutte quelle professate dalla società in cui vivono, non
rimandano a dottrine anteriori e non hanno avuto alcun seguace (la
definizione è dello stesso Queneau). Portatori di teorie strampalate e
inverosimili, i «folli letterari» si distinguono per un’immaginazione
effervescente, inquietante.
Se dovesse descrivere la normalità, Maffei la raffigurerebbe con
una linea dritta, con piccole oscillazioni, mentre la follia la
disegnerebbe con la forma irregolare di una sinusoide, oscillante fra
alti e bassi. Il folle, a volte semplicemente un individuo diverso, ha
più occhi e più orecchie e più parole del normale; quest’ultimo in
genere ha paura dei cambiamenti, vi si oppone con forza.
La società non ama i diversi, ne ha il terrore,
mentre oggi, ammonisce Maffei, ciò che dovrebbe impaurirci è la corsa
verso un mondo digitale che riduce il pensiero a un algoritmo, che va
sostituendo l’Homo sapiens con una nuova creatura, l’uomo seriale.
A questo punto ho pensato di rivolgermi a un esperto in materia, ho
chiesto a ChatGPT (Chat Generative Pre-trained Transformer), un
prototipo di software progettato per simulare una conversazione con un
essere umano, una definizione stringata di uomo seriale, e lui,
l’intelligentone artificiale, mi ha risposto: «È importante sottolineare
che l’etichettatura di un individuo come “uomo seriale” può essere
stigmatizzante e limitativa, e non tiene conto della complessità e
diversità delle esperienze umane». Capito il furbacchione!
Lamberto Maffei
Solo i folli cambieranno il mondo.
Arte e pazzia
il Mulino, pagg. 140, € 14