Paolo Albani
UN BALLETTO
ACROBATICO
Il mistero si chiarì
qualche tempo dopo che avevo fatto
visita, nella campagna fiorentina, alla mia cara amica Rosanna
Mattioli.
Lei conosceva bene il russo, lavorando presso una ditta di
import-export
che intratteneva buoni rapporti commerciali con l'est europeo, e
accettò
gentilmente il mio invito a tradurmi, nei ritagli di tempo libero, lo
strano
libretto che avevo trovato per caso su uno scaffale della biblioteca di
Verzegnis, un piccolo comune della Carnia.
A dire il vero Verzegnis non esiste. In un certo senso è
un paese immaginario, un non-luogo. Il comune che porta quel nome
è
la somma di quattro frazioni - Chiaulis, Intissans, Chiaicis e Villa,
dislocate
alle estremità di un quadrilatero imperfetto - e di altri paesi
più piccoli.
Verzegnis ha una storia singolare, di cui c'è traccia
in alcune pagine letterarie di Carlo Sgorlon e Claudio Magris:
dall'ottobre
del 1944 all'aprile del 1945 venne occupato da un reggimento di
cosacchi,
reclutato dai nazisti per le operazioni di rastrellamento e di
rappresaglia
contro il movimento partigiano molto attivo nella regione. I cosacchi
(più
di 1.500 persone fra soldati e civili, tra cui medici e artisti)
giunsero
a Verzegnis con 465 cavalli, 58 mucche e 20 cammelli, e vi stabilirono
la sede del comando principale del Reggimento Tèrek-Stravropol',
ribattezzando il paese Stanitsa Tèrskaja (Villaggio
cosacco
del Tèrek). Il Quartiere Generale Cosacco e l'alloggio
dell'Atamano,
cioè il capo militare e civile cosacco, il generale Pjotr
Nikolaevic
Krasnòv, furono sistemati nell'ala più bella della
«Stella
d'oro», una locanda che esiste ancora oggi, di fronte alla chiesa
della frazione di Villa.
Il 18 giugno del 2005 fui
invitato a Verzegnis (ecco perché
ne ho parlato) a presentare un libro di giochi di parole, Un'idea
tira
l'altra. Esercizi di scrittura ri-creativa, curato da Elisabetta
Pertoldi
e Virginia Boldrini per Campanotto Editore di Udine. Al termine della
presentazione
una gentile funzionaria dell'Assessorato alla Cultura m'invitò a
visitare la biblioteca comunale che custodiva un lascito particolare:
una
trentina di libri che uno dei pittori al seguito della comunità
cosacca, Vasilij Andreevic Makanin, aveva donato, prima di lasciare
precipitosamente
Verzegnis nell'aprile del 1945, al giovane medico condotto di quel
tempo,
un certo Gaetano Marchianò, in segno di amicizia.
Un po' per curiosità, un po' per compiacere la mia guida,
presi dallo scaffale alcuni di quei libri e cominciai a esaminarli.
Erano
edizioni stampate fra la seconda metà del XIX secolo e i primi
anni
del Novecento, tutte in cirillico, cosa che le rendeva ai miei occhi
oggetti
enigmatici e irreali, reperti di un altro pianeta.
Non conoscendo il russo, mi limitavo a osservarne la veste
grafica,
non compromessa dagli interventi di restauro che affioravano qua e
là
(rilegature, aggiunte di frammenti di carta mancanti, riparazioni di
strappi).
Alcuni libri mostravano delle copertine con disegni stilizzati, non
sempre
di buon livello, da cui cercavo d'intuirne il contenuto producendomi in
fantasiosi azzardi interpretativi; altri avevano delle pagine corredate
da illustrazioni in bianco e nero, protette in certi casi da fogli di
carta
sottile trasparente.
Mentre curiosavo fra i libri di quello scaffale sotto lo sguardo
premuroso della mia accompagnatrice, fui colpito da una foto al centro
della copertina di un libretto di poche pagine, 64 per l'esattezza,
stampato
(questo lo accertai in seguito) a Mosca nell'autunno del 1935 dalla
tipografia
dei fratelli Michail Aleksandrovic e Nikolaj Sergeevic Sorskij.
Era una foto rettangolare, di cattiva qualità, sbiadita,
che mi fece venire in mente, per il soggetto rappresentato, il titolo
di
una grottesca commedia di Mrozek. Tuttavia, a giudicare dalla
disposizione
tipografica del testo, non mi sembrava un'opera teatrale.
La foto mostrava, ripresi frontalmente, l'uno accanto all'altro,
come a formare una fila di danzatori esotici, un gruppo di tacchini con
le code aperte a ventaglio, il petto bello gonfio e un vigoroso
bargiglio
allungato sotto il becco. Sfogliandolo, mi accorsi poi che il libro al
suo interno conteneva numerose altre foto di tacchini, inframmezzate al
testo naturalmente in cirillico, come pure in cirillico erano le
didascalie
che accompagnavano le foto. Una scrittura affascinante, il cirillico,
almeno
sul piano estetico, anche se per me, che ho un rapporto difficile con
le
lingue straniere, è quanto di più ostico e
incomprensibile
si possa immaginare, pari soltanto alle scritture ideografiche.
Nelle foto (la cosa mi sembrò subito alquanto insolita),
i tacchini erano disposti in maniera regolare, cioè su una o due
file composte ogni volta da quattro, cinque elementi, non troppo
distanziati
fra di loro. In alcuni casi, vicino ai tacchini, s'intravedevano dei
musicisti,
un suonatore di balalaica e un altro che pizzicava le corde di un
mandolino,
entrambi in pantaloni alla cosacca e stivali neri e camicetta bianca
senza
colletto; in altre foto si vedeva della gente intorno ai tacchini,
sempre
disposti in un ordine impeccabile, radunati sull'aia di una casa di
campagna
o sulla piazza di una città. Si scorgevano facce divertite,
euforiche,
gente che applaudiva, che sventolava fazzoletti.
A metà circa del libro notai una foto davvero incredibile
che ritraeva una serie di tacchini allineati nientemeno che sul
palcoscenico
di un teatro, davanti a un fondale dipinto con motivi agresti,
investiti
da un potente fascio di luce. Sotto il palcoscenico, nella penombra del
golfo
mistico, si delineavano, di schiena, i profili di un gruppo di
musicisti
e poco più indietro le teste degli spettatori seduti nelle prime
file. La situazione era talmente inverosimile che lì per
lì
pensai a un ingegnoso falso, a un fotomontaggio.
Ma il fatto ancora più straordinario è che i
tacchini
ritratti nella foto (cinque esemplari) stavano sospesi a mezz'aria, con
le zampette, esili e rugose, sollevate a dieci centimetri circa dalle
assi
del palcoscenico, e divaricate, tenute su come fanno le ballerine prima
di esibirsi nella spaccata, e tutti avevano il becco triangolare
appuntito
rivolto verso destra, guardando la foto.
Insomma era come se il fotografo avesse immortalato quei tacchini
durante l'esibizione di un salto acrobatico, effettuato all'unisono, in
pubblico, rispettando un copione ben preciso, con un sincretismo
raggiunto
dopo un lungo, meditato esercizio.
Vedendo che mi attardavo su quel libro, la funzionaria si
avvicinò
e mi disse cortesemente:
«Se il libro le interessa, possiamo farglielo avere domani
stesso in fotocopia».
«Grazie, la cosa mi renderebbe felice», risposi io,
solerte. Anche perché mi sarei sentito in imbarazzo a rifiutare
una simile premura. Poi aggiunsi: «Lei conosce il russo?»
«No», rispose la funzionaria allargando le braccia,
dispiaciuta di non potermi aiutare.
«Nemmeno io», la tranquillizzai. «Questo libro
ha delle foto bizzarre, che non riesco a spiegarmi. Mi piacerebbe farlo
tradurre per scoprire di cosa parla».
Quando ripartii dalla
Carnia, dentro la valigia, in una busta
gialla con l'intestazione «Comune di Verzegnis. Assessorato alla
Cultura», custodivo il misterioso «libro dei
tacchini»
fotocopiato. In meno di un mese, la mia amica Rosanna si divertì
(almeno così lei mi disse) a tradurlo e finalmente potei
rendermi
conto del suo contenuto.
Per prima cosa scoprii che l'autore del libro, intitolato nella
traslitterazione dal cirillico Mne žalko, cto ja ne zver' (Mi
dispiace
di non essere un animale), era un certo Vjaceslav I. Tichonov, nome a
me
sconosciuto, di cui per altro nel libro non c'erano notizie
biografiche.
Quanto al contenuto, il libro raccontava la vita di Anton Ivanovic
Cašnik,
classe 1854, un ingegnere minerario nativo di un paesino vicino a Tula,
collezionista di armi e botanico dilettante, che, una volta in
pensione,
si era dedicato all'allevamento dei tacchini, del genere più
comune
il Meleagris gallopavo, e negli anni 1923-27 aveva raggiunto
una
certa fama, specie in alcune zone rurali della Russia bolscevica, come
inventore di un metodo di addestramento dei tacchini, noto appunto come
«metodo Cašnik».
La fama di Cašnik, documentata da numerosi articoli di giornale
e di rivista (un trafiletto apparve anche sulla rivista dell'Armata
Rossa)
e da attestati di benemerenza di non poche sezioni periferiche del
Partito
Comunista dell'U.R.S.S., crebbe rapidamente quando
l'allevatore-ammaestratore
russo mise in piedi un vero e proprio spettacolo in cui i tacchini,
mostrando
una disposizione acrobatica non indifferente, accompagnati da un gruppo
di musicisti, si producevano per un buon quarto d'ora in passi di danze
popolari.
Oltre al gopak, eccitante e pirotecnico ballo ucraino,
il pezzo forte, il momento culmine dello spettacolo era quando i
tacchini
abbozzavano, goffi, ma non privi di una discreta capacità
imitativa,
qualche passo di danza alla cosacca sulle note frenetiche della mitica
kalinka.
A quel punto dello spettacolo, gli spettatori andavano letteralmente in
visibilio.
Le bestiole iniziarono la loro carriera artistica esibendosi
dapprima in luoghi all'aperto: cortili di case private, aree allestite
all'interno di kolchoz, piazze cittadine, in genere durante mercati o
feste
locali. Poi, accolti da una crescente partecipazione popolare, gli
spettacoli
furono ospitati in spazi più grandi, in stadi, parchi pubblici,
piazzali di fabbriche, caserme, scuole e in circhi equestri, come il
famoso
«Circo Proletario» di Kurbatov che stampò dei
manifesti
giganteschi, a colori, per l'occasione. Un intraprendente Commissario
del
Popolo, che stimava Cašnik, arrivò persino a organizzargli una
tournée
in alcuni teatri di provincia.
Per una sola serata, evento che segnò la loro apoteosi,
il 12 giugno del 1927, i «tacchini danzanti» di Cašnik
ebbero
l'onore di calcare la scena del prestigioso Kamernyj (Teatro da
camera) di Mosca, davanti a Stalin che fu il primo, al termine dello
spettacolo,
a far partire un fragoroso applauso, cui subito si accodarono,
eccitati,
gli altri influenti membri del Comitato Centrale del Partito Comunista
che occupavano il palco d'onore.
Dopo i successi ottenuti, Cašnik intensificò le esibizioni
e divenne per tutti in Russia l'uomo dei tacchini danzanti,
l'alfiere
di «uno degli animali domestici più rispettabili e
positivi
che ci siano al mondo, nel cui fiero comportamento» - si leggeva
in un volantino distribuito davanti agli Stabilimenti Budancev di Tula,
prima del balletto acrobatico dei tacchini - «si riflette lo
spirito
battagliero del Proletariato vincente». Quanto alla frase:
«Mi
dispiace di non essere un animale», ripresa nel titolo del libro
trovato a Verzegnis, fu pronunciata da Cašnik durante una lunga
intervista
che apparve, insieme a una sua foto, sulla Pravda del 4
settembre
1927.
Il metodo escogitato da Cašnik si basava sulla tecnica
dell'«azione-premio»,
abbastanza simile ad altre impiegate per allestire spettacoli con
animali
intelligenti, di cui, uno dei più famosi, resta quello del
cavallo
Hans, nella Berlino dei primi anni del Novecento, che suscitò
accese
controversie scientifiche, e non solo in Germania. Secondo il suo
proprietario,
usando lo zoccolo di una zampa anteriore, Hans sapeva risolvere
correttamente
problemi aritmetici complessi, riconoscere le carte da gioco, comporre
le lettere di una parola, indicare la data del giorno e altre cose
ancora.
In breve il «metodo Cašnik» consisteva in questo:
non appena i musicisti attaccavano un certo motivo, Cašnik faceva
compiere
al tacchino una precisa azione (ad esempio muovere la gamba
destra
in avanti, di lato o in alto) agendo su un filo stretto a una parte del
corpo dell'animale (nel nostro esempio la gamba destra); dopo di che,
per
invogliare il tacchino a ripetere il gesto senza lo stimolo del filo,
seguendo
esclusivamente il ritmo della musica, Cašnik gli dava in premio un
impasto da lui stesso creato fatto di bacche, insetti, larve, germogli,
semi e altri cibi di cui sono ghiotti i tacchini.
La storia dei
«tacchini-danzanti» di Cašnik ebbe un
epilogo tragico, inglorioso.
Quando alla fine degli anni venti, a seguito della
collettivizzazione
forzata in agricoltura voluta da Stalin, una grave carestia
divampò
in Russia, alcuni abitanti di un villaggio contadino nei pressi di
Novgorod,
spinti dalla fame, prima che lo spettacolo iniziasse, rubarono i
«tacchini
danzanti» e se li mangiarono tutti in grande fretta, alcuni che
erano
ancora da spennare, mezzi crudi.
Cašnik non riuscì a far niente; protestò, ma venne
bastonato dalla folla inferocita rimettendoci due costole, la frattura
delle gambe e varie altre contusioni. Si salvò per miracolo
trascinandosi,
sorretto da un pope, dentro una chiesa. Dopo quella terribile
esperienza,
vendette l'allevamento di tacchini e si ritirò, deluso, dal
mondo
dello spettacolo. Morì poco tempo dopo, nel 1932, in una casa di
riposo a Tula.
Almanacco del Bibliofilo, 16, 1 gennaio 2006, pp. 21-30.
Questo numero dell'Almanacco, intitolato "Curiosità
bibliografiche
e bizzarrie letterarie", a cura di Mario Scognamiglio, contiene testi
di
(in ordine di apparizione) Giulio Andreotti, Paolo Albani, Annalisa
Bruni,
Salvatore Carrubba, Gianni Cervetti, Matteo Collura, Gianandrea de
Antonellis,
Oliviero Diliberto, Gianfranco Dioguardi, Umberto Eco, Mauro
Giancaspro,
Giuseppe Marcenaro, Elio Palombi, Mario Scognamiglio, Pietro
Spirito,
Armando Torno.
Per ritornare al sommario dell'Almanacco
del Bibliofilo cliccate
qui.
HOME
PAGE TèCHNE
RACCONTI
POESIA VISIVA
ENCICLOPEDIE
BIZZARRE ESERCIZI
RICREATIVI NEWS
|