Paolo Albani
"SCUSATE IL GIOCO DI PAROLE"
   

   

Non ne posso più. Sono al limite della sopportazione. Oggi alla radio, per l’ennesima volta, ho sentito il conduttore di una trasmissione culturale (e sottolineo culturale) affermare candidamente dopo aver masticato un’allitterazione involontaria: «Scusate il gioco di parole».
    Ma scusarsi di che? Di un gioco di parole? E perché mai uno dovrebbe vergognarsi di aver fatto un gioco di parole? Ma siamo impazziti! Ha qualcosa di sconveniente, di volgare, di stupido il gioco di parole? Chi non perde l’occasione di far uscire dalla propria bocca un piagnucoloso «Scusate il gioco di parole», sa quel che dice? Ha coscienza della bestialità di cui è vittima?
    Fosse per me, adotterei provvedimenti drastici, in ogni circostanza, contro i responsabili della diffusione di una frase tanto disonesta e inopportuna. Fastidiosa persino all’udito. Multe salate, carcere preventivo, punizioni corporali, confino su un’isola sperduta in mezzo all’oceano Atlantico, a circa 1.900 km dalla costa dell’Angola.
    Lo so che non è politicamente corretto, ma dopo aver sentito per la milionesima volta il ritornello «Scusate il gioco di parole», affibbierei all’odioso pentito di turno, se l’avessi a portata di mano, un sonoro scappellotto sulla nuca. Che gioia!
    La misura è colma: stilerò una petizione, un Manifesto per sensibilizzare l’opinione pubblica contro l’uso della bieca formuletta, così da metterla al bando. Niente più «Scusate il gioco di parole». Vietato pronunciarla. Legittimarla. Canonizzarla. Spero vi aderiranno gli intellettuali più sensibili e fuori dal coro, pagherò a mie spese, grazie a un prestito bancario o a una colletta fra amici e parenti, lo spazio sui più importanti quotidiani nazionali per far conoscere la mia battaglia.
    Aveva ragione Giampaolo Dossena a dire che «il gioco resta circondato dal discredito in molti ambienti». (1) Questo discredito ha un’eco ben rintracciabile, si riflette, in modo chiaro, nella codarda affermazione di chi, scivolato su un gioco di parole non previsto, si affretta vigliaccamente a chiedere scusa.



Giampaolo Dossena

    Uno parla in pubblico – supponiamo al microfono di una radio –, snocciola tranquillo un discorso e gli scappa di mettere in fila queste parole: «Ammesso e non concesso che il sesso ecc. ecc.», dopo di che fa subito marcia indietro, sfodera l’imbarazzante e non più tollerabile rituale fraseologico, «Scusate il gioco di parole», o «Scusate il bisticcio», che è la stessa cosa, una variante che nulla cambia al senso del futile rammarico.
    Provate a dirlo a Gino Patroni (1920-1992), il più grande epigrammista italiano, che vi scusate per un gioco di parole, lui che fece arrabbiare il premio Nobel Salvatore Quasimodo con questi versi:

                    Mensa popolare

                    Una
                    zuppa
                    di
                    verdura
                    ed
                    è
                    subito
                    pera. (2)

    Una volta Patroni è con Gianni Brera, assistono a una partita di calcio, entrambi sono giornalisti sportivi. A un certo punto Patroni si avvicina a Brera e gli sussurra all’orecchio: «Orsù!». Brera lo guarda stranito, si aspetta che all’esortazione segua un concetto. Non segue nulla. «Orsù cosa?!» lo incalza Brera. E Patroni: «Una famiglia di orsi recentemente scoperta in Sardegna».
    Ditelo a Patroni, se avete il coraggio, che vi scusate per essere caduti nella trappola diabolica di un gioco di parole, e vediamo come reagisce lui.
    E se vi sembra troppo di parte o partigiano Patroni (qui sento il sopraggiungere al galoppo di un nuovo mortificante «scusate il gioco di parole»), chiedetelo pure all’Orbo Veggente, Gabriele D’Annunzio, che riempie «Di spruzzi, di sprazzi» la poesia L’onda, (3) o scomodate, se preferite, il compassato Eugenio Montale, il cui anagramma è uomo inelegante, che si lascia prendere la mano e sforna nella poesia I nascondigli II, echeggiando il Vate di Pescara, il verso «e solo la spuma entrava a spruzzi e sprazzi». (4)
    Credete che i due, D’Annunzio e Montale, sommi poeti, si scuserebbero per questi -uzzi e questi -azzi che stridono fra loro, che fanno scintille?
    Manco per il cazzo, mi verrebbe da dire, se mi passate il gioco di parole.






Note

(1) Giampaolo Dossena, Note all’edizione italiana, in Roger Caillois, I giochi e gli uomini. La maschera e la vertigine, traduzione dal francese di Laura Guarino, Bompiani, Milano 19892, pp. 229-245.

(2) Gino Patroni, Il meglio di Gino Patroni. Epigrammi editi e inediti, memorie di vita, prefazione di Arrigo Petacco con uno scritto di Ettore Alinghieri, Longanesi, Milano 1994, p. 32.

(3) Gabriele D’Annunzio, Versi d’amore e di gloria, edizione diretta da Luciano Anceschi, a cura di Annamaria Andreoli e Niva Lorenzini, introduzione di Luciano Anceschi, 2 voll., Mondadori, Milano 1982-1984, vol. 2, p. 537.

(4) Eugenio Montale, Tutte le poesie, a cura di Giorgio Zampa, Mondadori, Milano 1984, p. 701.



marzo 2023


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