Paolo Albani
RIFLESSIONI SULLA MORTE

Sapete qual è l’atteggiamento della Morte che odio di più? È semplice: non sopporto il fatto che la Morte se ne stia sempre in agguato, dissolta nella penombra, rimpiattata da qualche parte, perfidamente imprevedibile, invisibile, silenziosa, creando intorno a sé una tensione angosciante. La Morte, cazzo, non molla un minuto, non va mai in ferie, è una crumira, una stacanovista. È sempre pronta a entrare in azione, a colpirti alle spalle come un sicario inesorabile, un killer assoldato dalla mafia.

Che uno, nemmeno a farlo apposta, magari per qualche tempo non ci pensa, si rilassa, è distratto da una moltitudine di cose da fare, di incombenze giornaliere, a volte anche fastidiose, e vacca troia è proprio in quel momento, zac!, che arriva la Morte, si fa viva all’improvviso, quando meno te l’aspetti e ti prende a tradimento, bastarda. Ecco, è l’imprevedibilità che m’infastidisce di più nel comportamento della Morte, un comportamento subdolo, l’incertezza nello stabilire quando e come sopraggiungerà la fine della tua vita, e tutto per via del riserbo – assurdo e spietato – tenuto (voluto) dalla Morte sulla questione della scelta dell’attimo in cui creperai, dell’attimo in cui la Morte, che ne ha il potere esecutivo, decreterà, una volta per tutte, la fine dei tuoi giorni.

  Insomma, se posso esprimermi con franchezza, senza peli sulla lingua, rivolgendomi direttamente all’interessata: Non è carino che tu, Morte, che assolvi un compito così ingrato e terribile su questa terra, non senta la premura – non dico il dovere – di annunciarti, di mandare dei segnali, anche piccoli, ma inequivocabili, un preavviso, tipo scadenza di pagamento della bolletta della luce o del gas, in modo che uno si prepari, possa sintonizzarsi sulla lunghezza d’onda della Morte senza uno sconvolgimento eccessivo, di avere tutto il tempo di mettersi l’anima in pace, di congedarsi dai propri cari e dagli amici in maniera non traumatica, gradualmente. Secondo me, questo dell’avvertimento mortuario, sarebbe un pensiero gentile da parte della Morte, un gesto che sarebbe apprezzato e visto di buon occhio da tutti, che poi a lei, la Morte, diciamoci la verità, non costerebbe niente, non varrebbe nessuna incombenza in sovrappiù.

  Avevo un amico, si chiamava Carlo Natalini, soprannominato Carletto, un bravo ragazzo, ci siamo conosciuti alle scuole medie. Faceva il rappresentante di aspirapolveri, era sempre in giro per la Toscana, la sua zona di lavoro. Il 18 gennaio dell’anno scorso Carletto saluta la moglie in cucina, mentre finiscono di fare colazione; sono le 8:30 del mattino, Carletto dice alla moglie: «Ciao libellula [la chiamava così, perché la moglie è alta, una spilungona e non sta mai ferma], ci vediamo stasera per cena». Questi particolari me li ha raccontati la moglie di Carletto dopo l’incidente.

Carletto muore quello stesso giorno, alle ore 19:32, come si legge nel verbale della polizia stradale, all’altezza del casello di Lucca est dell’Autostrada Firenze-Mare, schiacciato da un camion con rimorchio guidato da un polacco che aveva alzato il gomito.

Carletto nemmeno lo conosceva il polacco che gli ha tolto la vita su quel tratto di autostrada. La Morte, vigliacca, aspettava Carletto sull’autostrada Firenze-Mare, la A11, si era acquattata da quelle parti, vicino al casello di Lucca est, senza dire nulla a nessuno, pronta a intervenire, forse mimetizzata tra la vegetazione circostante. La Morte – è noto – può assumere le sembianze che vuole, anche quelle di un cane che ti taglia la strada o di un’arteria che si occlude o di un camion impazzito con rimorchio.

   L’altro giorno ho ritrovato una lettera di mio nonno alla moglie Annalisa – che poi è la mia nonna, tuttora viva – quand’era sul fronte albanese, una lettera spedita da Tirana il 20 marzo 1941:

 

          Carissima Annalisa – scrive mio nonno in una calligrafia nitida, che sembra quella di un bambino – sono già un paio di giorni che non mando mie notizie e quindi vengo a te con questo breve scritto per informarti della mia ottima salute, mi mantengo, poi, anche tra i disagi, grazie al mio caratteristico buon umore. Ho lasciato Tirana domenica 9 c. m. ed ora mi trovo in una località̀ che non saprei davvero precisare. Aspetto con impazienza tue notizie, in questi posti non si può pretendere la puntualità, quindi bisogna pazientare. Spero di tornare a casa al più presto per riabbracciarti.

 

     Il giorno dopo aver spedito la lettera a mia nonna Annalisa, il 21 marzo 1941, il nonno muore in un’imboscata dei partigiani albanesi, nei boschi vicino a Priština. Di fronte a questa penosa avventura, io non posso fare a meno di riflettere: sarebbe stato troppo chiedere alla Morte, figlia di puttana, di fare uno sforzo e informare mio nonno, nelle modalità che lei preferiva, le più semplici e dirette, informarlo che lui non sarebbe tornato al paese, che la sua missione in Albania sarebbe finita da lì a poche ore e che perciò non avrebbe più rivisto mia nonna Annalisa? Che cazzo, un po’ di cuore, no? Cosa gli costava alla Morte avvisare mio nonno, poveretto, dargli un’imbeccata, magari solo a lui, senza allertare gli altri commilitoni per non creare il panico, una notifica ad personam, che a quel punto mio nonno avrebbe scritto una lettera diversa da quella spedita il 20 marzo 1941, con altre parole, in un altro tono: un’appassionata lettera di commiato.

    E invece no, com’è suo solito in questi drammatici frangenti, quando si prende la briga di andare a trovare qualcuno, la stronza tace, la Morte rimane nell’ombra, muta come un pesce, non spiffera nulla a mio nonno che parte per quell’azione di guerra, nel marzo 1941, completamente ignaro che sarebbe stata l’ultima azione di guerra cui partecipava. Si può essere più malvagi di così, più odiosi? Tenere all’oscuro della dipartita dal mondo un disgraziato con gli scarponi in condizioni precarie, vestito da soldato dell’esercito italiano, il più sgangherato del mondo all’epoca, abbandonato al proprio destino nell’asprezza delle montagne albanesi?

   In molti mi dicono che la mia è una battaglia persa, illudersi che la Morte, questa Bestia Nera schifosa, possa cambiare atteggiamento, intenerirsi e mettere giudizio. Lo so bene che è una follia. Non a caso uno degli slogan coniati dai surrealisti recitava perentorio: ABBASSO LA MORTE!

   C’è persino qualcuno – il classico pensatore idiota, rinunciatario, il finto «umanista saggio» – che si spinge a dire che bisogna accettarla la Morte, che è un fatto naturale, che tutti moriamo prima o poi e dunque dobbiamo farcene una ragione, addirittura arriva a teorizzare che la Morte può anche essere bella, un evento sublime.

   Mi dispiace, non la penso così. A rischio di sembrare patetico, io non mi arrendo: finché sarò in forza non smetterò mai di battermi contro la Morte. Lapalissiano, no? Continuerò a farlo anche da qui, in questa posizione intirizzita, obbligata, tre metri sottoterra, nel buio del contenitore di mogano che mi ospita, uno spazio umidiccio.

   

maggio 2019

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