Paolo Albani
LA MANO SULLA FRONTE

   


                                                                        Per Monica S.

     

C’è una foto famosa, scattata da Man Ray nel 1922, in cui lo scrittore irlandese James Joyce, l’autore dell’Ulisse, ha la testa leggermente inclinata in avanti e pone la mano destra sulla fronte. Più precisamente è il dito indice della mano destra che sfiora la fronte di Joyce, vestito in abito da sera scuro. In quella posizione, propria di uno che ha dei pensieri e sta riflettendo, Joyce ha l’aria triste, la postura di una persona sofferente, in pena per qualcosa che ignoriamo, che ci sfugge.
    Mi soffermo su questa foto di Joyce perché mi hanno sempre colpito quelli che si mettono una mano sulla fronte. Istintivamente, mi viene da solidarizzare con costoro, la cui mano – destra o sinistra non ha importanza – si poggia sulla fronte. Provo un senso di comunanza, di affinità, quando vedo una persona seduta su un bus o nello scompartimento di un treno, o da sola, al tavolo di un locale, o altrove, tenersi la fronte con una mano, e guardare in basso, pensierosa.

    Credo che il gesto di sorreggersi la testa con il palmo o le dita di una mano sia fra i più significativi per restituire la vera natura di un essere umano. Non penso di esagerare se vedo in quel gesto, non gratuito, il simbolo di un’umanità in cui riconoscersi, il più autentico. Ne ravvisate altri con la stessa potente carica rappresentativa? Stropicciarsi gli occhi? Grattarsi il naso o le parti intime? Assettarsi i capelli? Infilarsi un dito negli orecchi? Lasciamo perdere.
    Nemmeno l’uomo vitruviano, con le sue quattro mani spalancate, alla maniera laica di una dea indiana, aperte in modo da rappresentare le proporzioni ideali del corpo umano, eguaglia o batte il gesto della mano che sorregge la fronte nel darci una raffigurazione del senso profondo della vita. C’è in quel gesto un che di primordiale, di antico che condensa il fondamento essenziale dell’uomo, il suo inconfondibile DNA.
    Apro Il dizionario dei gesti italiani (1994) di Bruno Munari e scopro che il gesto di mettersi la mano sulla fronte, in atteggiamento di riflessione, non è presente. Una lacuna inspiegabile.
    Quel gesto, non credo di sbagliarmi, è tipico dell’uomo. Non lo si ritrova in nessun’altra specie. Non c’è un pennuto che si mette un’ala sulla fronte, o un elefante che inarca la proboscide e la adagia sulla fronte per segnalare ai suoi simili che sta meditando. Non esiste. Forse soltanto le scimmie lo fanno, di mettersi una mano sulla fronte, di proposito, magari sollecitate dal comando di un addestratore (quante volte si sono viste in un film o sulla pista di un circo scimmie fingere di disperarsi ponendosi una mano sulla fronte, o davanti agli occhi, per far ridere lo spettatore), e non è un caso che siano le scimmie a comportarsi così, animali, darwinianamente parlando, che sono i più simili a noi, anzi, secondo l’autore di L’origine della specie, noi deriviamo proprio dalle scimmie, e quindi nulla di strano se anche le scimmie hanno atteggiamenti uguali ai nostri, come portarsi una mano alla fronte.
    Il messaggio di chi si mette una mano sulla fronte è inequivocabile: «Sono affranto».
    Da questo punto di vista la posizione della mano è un elemento non secondario. Non è una sottigliezza. Ad esempio, ne Il pensatore (1880-1902) di Auguste Rodin, la mano, piegata quel tanto che basta affinché le nocche sfiorino le labbra, testimonia che l’uomo – come dice il titolo stesso – sta pensando, si limita a pensare (è un poeta? un filosofo?). Il suo gesto ha una marcia in meno, risulta meno struggente e impegnativo del gesto di chi la mano la poggia invece sulla fronte; in quest’ultimo caso, prevale la sensazione che l’attimo che si vuole cogliere è segnato da sofferenza, tormento, incertezza del futuro.
    Il gesto della mano sulla fronte ha affascinato artisti e scrittori.
    Nel 1890 Vincent van Gogh realizza un olio su tela, cm 81,8 x 65,5, intitolato Vecchio che soffre (“Alle porte dell’Eternità”), che raffigura un uomo, anziano e calvo, in abiti logori, seduto su una sedia, i gomiti sulle ginocchia, con il viso premuto tra le mani in una postura sconsolata. Nel quadro, il vecchio poggia entrambe le mani sulla fronte, non una sola, elemento che enfatizza ancor più il suo sconforto, il suo stato di emarginazione. In quel periodo, per disegnare, van Gogh frequenta gli ospizi dell’Aia dove trova i soggetti di quella «intera massa di povera gente» che lo ossessiona (come pure i contadini, mangiatori di patate e seminatori), da cui prende ispirazione per diversi dipinti.
    Ritorniamo per un attimo a Joyce. Nell’aprile 1940 Joyce scrive una lettera (di cui rimane solo il poscritto) a Mary Colum (1884-1957), scrittrice e critica letteraria irlandese. I due si sono frequentati a Parigi. Nella lettera Joyce le parla della traduzione italiana che lo stesso scrittore irlandese ha fatto di un brano del Finnegans Wake, intitolato Anna Livia Plurabelle, traduzione pubblicata il 15 febbraio del 1940 su «Prospettive», rivista di letteratura e arte fondata e diretta da Curzio Malaparte.
    Joyce scrive:

Il numero successivo (15 marzo) [della rivista «Prospettive», ndr] contiene una fotografia del ministro italiano della Pubblica Istruzione, il signor Giuseppe Bottai, che egli, a quanto sembra, ha mandato al direttore. La fotografia si presume sia stata fatta subito dopo la lettura del fascicolo dedicato alla mia «prosa». Sua Eccellenza è raffigurato seduto al tavolo con una mano sulla fronte, gli occhi chiusi e un’espressione di sbalordimento e stanchezza profonda sul volto. In margine alla fotografia ha scritto un’esclamazione di disperazione.

    Ciò che colpisce Joyce, guardando la foto del Ministro, è il gesto della mano sulla fronte, indice di sconcerto e afflizione, al di là delle circostanze storiche in cui si determina.
    Ennesima prova dell’attendibilità del ragionamento condotto fino a qui.
    Ponendosi una mano sulla fronte, l’autrice/autore del gesto rimarca la sua appartenenza al genere umano. È questo, in soldoni, che voglio dire.
    Alcuni sostengono che alla base del comportamento dell’uomo, sua costante invariabile nel tempo, sia il gioco (vedi l’Homo ludens di Johan Huizinga), per altri l’economia in quanto ricerca del benessere individuale, per altri ancora l’arte, esercizio inutile e fine a se stesso, o la capacità di ridere: solo l’uomo sa ridere, ha il senso del comico. Secondo me, invece, l’uomo si distingue in primo luogo per la sua attitudine alla riflessione, qualità che si materializza concretamente nel gesto di porsi una mano sulla fronte, evidenza fisica, naturale, del «cogito, ergo sum» con cui il soggetto pensante coglie la propria esistenza.
    Quando qualcuna/qualcuno solleva una mano e la mette sulla fronte, piega il busto in avanti, gli occhi socchiusi, istintivamente mi viene da pensare: ecco, è sul punto di accingersi alla riflessione, di acciuffare i propri pensieri per dipanarne il flusso, di guardarsi dentro, il che equivale a sancirne la condizione: «È UN ESSERE UMANO».


maggio 2023


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