Paolo Albani
UN VAGO INDIZIO
Una sera di luglio del 1996 verso
le 23 e 30 Lallo, stanco e livido
in volto, si adagiò in pigiama sul divano del suo studio. Era
solo
in casa. Aveva la fronte cosparsa di goccioline di sudore e il respiro
gli gonfiava il petto a un ritmo piú veloce del normale.
Girandosi
su un fianco allungò una mano verso un tavolino a tre gambe su
cui
erano posati un bicchiere e una bottiglietta semivuota di pasticche
color
rosa. Mise in bocca una pasticca e la buttò giú bevendoci
dietro un sorso d’acqua.
Per invogliarsi a prendere sonno lesse qualche pagina
dell’autobiografia
di Susan Hampshire, una bambina inglese affetta da disgrafia che diceva
di sentire dentro la sua testa la presenza di «una lunga
stringa»
che le impediva di scrivere.
«Mi era facile parlare di quello che avevo visto nel parco, o
identificare le scarpine da ballo, o sistemare i libri ordinandoli
secondo
le dimensioni, ma decifrare l’alfabeto o riconoscere le lettere C.A.T.,
precisando quale parola formassero era per me quasi impossibile».
Lallo interruppe la lettura. Tossí forte, imprecando.
«Quando dovevo scrivere, venivo presa da una strana sensazione,
e mi sentivo dentro la testa, per cosí dire, una lunga stringa.
Mia madre mi diceva: “Le lettere C.A.T. formano la parola cat. Susan,
che
parola formano le lettere C.A.T.?”
“Non lo so, non lo so, signora Hampshire (cosí la chiamavo a
scuola), non so che parola formino”.
La stringa dentro la mia testa mi impediva di rispondere. Avevo proprio
la sensazione che il mio cranio racchiudesse un intero gomitolo di
spago,
con una estremità sporgente fuori della testa».
Giunto alla frase che recitava: «Pensavo che se avessi tirato
da questa estremità, avrei potuto far uscire la stringa,
liberare
la mia testa, districare il groviglio che c’era nel mio
cervello...»,
Lallo sentí battere la mezzanotte dal campanile di
Sant’Agostino,
la chiesa di Anghiari non lontana dalla sua abitazione.
Allora si alzò, stancamente si diresse in camera da letto e
controllò l’ora sul quadrante di un bell’orologio in stile
rococò
che troneggiava al centro di un cassettone antico. Accanto
all’orologio,
Erica, la sua donna, un’esperta conoscitrice di piante officinali,
incontrata
sei anni prima durante una crociera in Tunisia, gli sorrise dal
portafoto
d’argento mostrando una dentatura sensuale e aggressiva.
Fu in quell’istante che Lallo vide - o meglio gli sembrò di
vedere inebetito com’era dall’effetto della pasticca appena presa -
un’ombra
sgusciare lungo la parete della camera da letto e dileguarsi con un
balzo
repentino sulla terrazza, inghiottita nel buio della notte, dietro lo
svolazzìo
delle tende della portafinestra rimasta inspiegabilmente socchiusa.
Impaurito da quella figura nera Lallo colpí l’interruttore della
luce che illuminava l’esterno della casa e, afferrato il primo oggetto
che gli capitò fra le mani, si precipitò in terrazza.
Con la mano destra alzata, impugnando un fermacarte di bronzo,
ispezionò
velocemente la terrazza. Ma non vi trovò nessuno. Piano piano si
avvicinò alla balaustra e guardò in basso verso il
giardino
del condominio che l’intruso avrebbe potuto raggiungere con un salto
non
pericoloso.
D’un tratto, appeso alla punta di un arpioncino di ferro che insieme
ad altri sosteneva una minuscola rete stesa lungo il bordo del
parapetto,
notò un frammento di tessuto. Lo sfilò delicatamente e lo
mise sotto un fascio di luce. Era un lembo di stoffa nera a quadretti
blu.
Quella notte Lallo non riuscí a chiudere occhio. Smanioso si
rigirò di continuo nel letto, mugolando, bisbigliando parole
sconnesse
imprigionato nel lenzuolo che lo avvolgeva come una tunica araba. Forse
lanciò anche un grido, spaventato dai fantasmi di un incubo.
Il giorno dopo, verso l’ora di
chiusura del negozio, andò a prendere
Erica all’erboristeria in cui lavorava, ma non le disse niente del
misterioso
episodio accaduto quella notte. Non voleva turbarla. In casa della
madre
di Erica avevano già rubato una volta, l’anno prima, la notte di
ferragosto. I ladri erano entrati arrampicandosi su per la grondaia di
rame. Spaccato un vetro, avevano messo a soqquadro la casa, buttato
all’aria
cassetti, armadi e ogni altro possibile nascondiglio, rovesciato
materassi
e divani; poi, dopo aver arraffato una manciata di gioielli insieme a
un
rotolo di banconote in un barattolo del caffè e due tele di
P.V.,
un giovane astrattista, erano usciti indisturbati dalla porta
d’ingresso.
Quella sera Erica e Lallo andarono a cena da Ottone, un amico comune
che aveva una bella casa nel centro di Anghiari, in via Enrico Nenci,
vicino
al Museo della Confraternita della Misericordia. Ottone era uno dei
tanti
orafi presenti nella zona dell’aretino, molto bravo nell’incisione dei
cammei e nel legare le gemme, conosciuto in città anche come
appassionato
di cavalli e oligarchico collezionista di pennini.
Proprio i pennini furono all’origine dell’amicizia che nacque tra Lallo
e Ottone. Si conobbero all’inaugurazione di una mostra di P.V. Sempre
felice
di calarsi nel ruolo del logopedista impegnato, attività svolta
in un centro medico per la rieducazione linguistica di un ospedale
vicino
ad Anghiari, Lallo si trovò a parlare in mezzo a un piccolo
gruppo
di persone raccolto vicino al tavolo dei cocktail, della “disgrafia
profonda”,
cioè dell’incapacità registrata in alcuni soggetti di
applicare
regole fonetiche alla scrittura.
- Per esempio, - aggiunse Lallo a un certo punto - alla richiesta di
scrivere sotto dettatura una parola priva di senso, quest’ultima viene
spesso sostituita con una parola reale foneticamente simile.
Cosí
può accadere che la parola inesistente «punna» sia
scritta
«biro», probabilmente per l’influsso della parola
«penna».
«Punna-penna-pennino», e zac!, l’associazione balzò
subito spontanea, il cortocircuito fu immediato. Ottone, che assisteva
in silenzio e un po’ annoiato alla conversazione, non amando la
pittura,
i pittori, il blabla ipocrita e melenso dei vernissage né tanto
meno le disfunzioni linguistiche, prese spunto da quanto appena detto
da
Lallo per accennare alla sua maniacale passione per i pennini e
raccontò,
libero da ogni tipo di sollecitazione esterna, ovvero senza che a
qualcuno
interessasse neanche un po’ della sua storia, come quel capriccio gli
fosse
venuto da bambino e l’avesse coltivato, all’inizio, insieme a una
cuginetta
che poi si era sposata con un rappresentante della Manifattura Pastori,
quella delle marmellate in vasetto, che ora faceva anche sughi, salse e
sottaceti; tutte cose che lasciarono i presenti nella piú totale
indifferenza.
A casa di Ottone, il tavolo
apparecchiato per la cena indicava sette
coperti. Oltre al padrone di casa e consorte e una coppia di loro amici
francesi in vacanza in Italia da un paio di settimane, Lallo e Erica
conobbero
Penelope, una psicanalista di fede freudiana, un donnone procace che
inforcava
degli occhiali con le estremità svolazzanti e le stanghette
colorate
da vamp del cinema muto, il collo grinzoso seminascosto da un foulard
di
seta che le scendeva fino ai fianchi.
Dopo un Martini con ghiaccio servito in piedi, le tre coppie e la
psicanalista
si sedettero a tavola disponendosi in modo da alternare un uomo e una
donna,
come ordinò scherzosamente la bionda A., moglie di Ottone, e
cugina
di P.V., anche lei pittrice a tempo perso.
All’inizio la conversazione si soffermò sulle vacanze degli
ospiti francesi che gestivano un’oreficeria in rue de Lancry a Parigi.
Fino a quel momento avevano visitato Venezia, Firenze, Siena e San
Gimignano,
ma volevano spingersi piú a sud, fare una puntata fino a Napoli,
passando naturalmente per Roma.
In una pausa di silenzio, mentre torturava scompostamente una fetta
di roast beef al sangue, Penelope si fermò. Prese un’espressione
melanconica e disse:
- Avete sentito della disgrazia di questa notte?
- No - risposero quasi in coro Lallo e Ottone.
- Hanno ucciso il vicedirettore della Banca di Credito Cooperativo
di Anghiari. Pensate, abitava proprio nell’appartamento sotto al mio.
- Ucciso? - disse Lallo inarcando un sopracciglio. - Allora è
stato un delitto, non una disgrazia.
- Sí, certo. L’hanno trovato con la testa fracassata sul
pavimento
della cucina. Sembra che la morte sia avvenuta intorno alle 22. Mi
dispiace
parlare di queste cose durante...
- Terrible! - sospirò la signora francese.
Ma il vero colpo di scena avvenne quando la psicanalista
pronunciò
il nome del morto. A sentirlo, Erica sbiancò. Per non tradire la
forte emozione che l’aveva assalita si passò ripetutamente il
tovagliolo
sulle labbra macchiandolo di rossetto.
Il cadavere era quello di R.T., un bell’uomo sulla quarantina, scapolo,
capelli brizzolati e fisico atletico da maestro di tennis. Ad Anghiari
tutti lo conoscevano come un «tombeur de femmes»,
piú
volte coinvolto in triangoli amorosi e assiduo frequentatore di ben
note
case di piacere.
R.T. era stato compagno di liceo di Erica. A quei tempi, i due
avevano avuto un flirt, una storiella durata però poche
settimane.
Erica si era subito stancata della vuotezza d’animo del suo spasimante
e aveva rotto il fidanzamento gettando R.T. nella piú cupa
disperazione.
Per alcuni anni, R.T. l’aveva ricercata in modo ossessivo, meglio
sarebbe
dire perseguitata, con suppliche di tornare insieme a lui scritte su
bigliettini
fatti scivolare di notte sotto la porta di casa di Erica,
melodrammatiche
promesse di cambiamento, propositi di attuare gesti inconsulti e
persino,
alla fine, minacce di ritorsioni per fortuna mai attuate come quella,
davvero
patetica e di cattivo gusto, di mostrare agli amici delle foto piccanti
di Erica sotto la doccia.
Dopo aver sentito quel nome, Erica fece finta di niente.
Continuò
a mangiare sforzandosi di masticare con lentezza. Provò un misto
di vergogna e di fastidio per quel suo amoretto giovanile. Adesso, nel
turbinìo confuso dei ricordi, le parve d’improvviso come una
leggerezza
senza valore che però, sebbene non ne cogliesse a fondo la
ragione,
gettava un’ombra negativa sulla sua vita, una macchia ancora piú
inconfessabile visto il modo atroce in cui R.T. era morto.
- Sapete, i carabinieri hanno interrogato anche me, questa mattina
- aggiunse Penelope ormai senza freni, inarrestabile nel suo racconto.
- Per loro sfortuna ieri sera non ero in casa, mi trovavo da Zi’ Teresa
a mangiare con alcuni colleghi e amici di mia figlia. Sembra che
qualcuno
abbia visto un uomo, forse l’assassino, fuggire giú per le
scale.
Hanno anche un indizio, - continuò abbassando leggermente la
voce
per rendere piú intrigante la sua esposizione, - una camicia
nera
a quadretti blu.
A quella rivelazione, Lallo non si scompose. Il ricordo del pezzetto
di stoffa ritrovato sulla sua terrazza non lo turbò minimamente,
almeno in superficie. D’improvviso, tuttavia, una posata gli
sfuggí
di mano e cadde sul piatto provocando un rumore secco, che fece voltare
gli altri all’unisono verso di lui.
- È pazzesco! - farfugliò a questo punto Lallo
imbarazzato,
con gli occhi dei presenti che gli stavano incollati addosso. -
È
una coincidenza incredibile.
Poi esitò. Non voleva tradirsi. Se ora si fosse messo a parlare
dell’episodio accaduto quella notte gli avrebbero sicuramente chiesto
delle
spiegazioni, Erica in particolare: perché hai aspettato tanto a
dirmelo? c’è qualcosa che mi nascondi? Doveva rispondere con
calma,
senza destare sospetti.
- Coincidenza? Quale coincidenza? Spiegati meglio - domandò
incuriosita la bionda A. che si stava appassionando al giallo del
vicedirettore
di banca.
Lallo non poté sottrarsi alla durezza di quella richiesta
perentoria
e decise di aprirsi e dire la verità, la “sua” verità.
- Questa notte qualcuno è entrato nel mio appartamento -
spiegò
con voce ferma. - Non ho detto niente fino a ora per non preoccupare
Erica,
dopo la terribile esperienza capitata l’anno scorso a sua madre.
Chiamata in causa, Erica non intervenne.
Lallo riprese fiato e aggiunse: - L’ho sorpreso in camera da letto,
ma è riuscito a scappare. Poi in terrazza ho trovato il
frammento
di una stoffa nera a quadretti blu.
- Lo stesso colore della camicia dell’assassino! - scalpitò
la bionda A. raggiante per la fulminea intuizione.
Erica declinò una smorfia d’insofferenza. E si morse le labbra.
Avrebbe voluto accendersi una sigaretta, ma non lo fece perché
sapeva
che Ottone, fanatico salutista, non tollerava che la piú
innocente
nuvoletta di fumo si alzasse fra le pareti di casa.
- L’avete visto in volto? - incalzò Penelope.
- No - rispose Lallo. - Era buio in camera da letto. Ho intravisto
solo un’ombra. Niente di piú che una sagoma nera.
- Hai ancora quel pezzetto di stoffa? - intervenne Ottone.
- Sí. Non credo di averlo buttato via - rispose Lallo un po’
frastornato dal ritmo incalzante delle domande.
- Forse potrebbe servire ai carabinieri - si esaltò la bionda
A. - Da quel frammento potrebbero risalire al tipo di camicia, al nome
del fabbricante e poi al negozio che l’ha venduto e magari...
- Sarebbe utile fare avere al piú presto quella stoffa ai
carabinieri
- la interruppe Penelope che riprese a tormentare sadicamente la sua
porzione
di roast beef con la punta del coltello.
- Sono d’accordo con lei - rispose Lallo visibilmente irritato dal
tono imperativo assunto dalla voce della psicanalista. - Domani stesso
andrò dai carabinieri. Anche un indizio insignificante
può
aprire orizzonti inaspettati.
- Ogni piccola luce evoca profonde oscurità! - gli fece eco
Penelope con un’aria solenne, quasi stesse citando a memoria la frase
di
un personaggio illustre.
Non sappiamo se il giorno
successivo Lallo andò davvero alla
caserma dei carabinieri come aveva promesso o se invece fu occupato in
altre faccende. Niente ci vieta di credere che forse finí per
sbrigare
quell’incombenza investigativa solo qualche tempo dopo oppure che gli
accadde
banalmente di non ritrovare piú la stoffa incriminata, e che
tutto
si spense lí. Chissà. Di certo sappiamo che la storia
dell’assassinio
di R.T. riempí per alcune settimane la cronaca nera dei giornali
locali ed ebbe una certa risonanza anche su quelli a larga diffusione
approdando
perfino sulle tivú nazionali.
Per qualche tempo Anghiari fu al centro del voyeurismo criminologico
dell’opinione pubblica.
Sulla stampa furono fatti dei cenni al particolare della camicia nera
a quadretti blu. Alcuni proprietari e dipendenti di negozi di
abbigliamento
della zona furono interrogati dagli investigatori, mentre un
giornalista
in cerca di scoop si presentò piú volte a casa di una
commessa
che, in cambio di un effimero scampolo di celebrità, gli aveva
fatto
intendere di nutrire dei sospetti su un noto avvocato di Anghiari, cosa
che si rilevò subito una chiacchiera priva di fondamento.
Un pomeriggio di agosto, quand’ancora la matassa del «giallo
di Anghiari», come fu battezzato dalla stampa, non era stata
sciolta,
Ottone passò a trovare Erica nel suo negozio di erboristeria e
com’era
prevedibile anche loro, come tutti del resto in quel periodo ad
Anghiari,
finirono col parlare della morte del «povero» (appellativo
usato di solito per indicare coloro che entrano a far parte
dell’anonima
e sconsolata categoria dei “non piú tra noi”) R.T.
Erica si guardò bene dal confessare il suo piccolo segreto a
Ottone che sapeva persona non proprio discreta e riservata, specie
quando
in gioco c’erano questioni di cuore. D’un tratto però dal
comportamento
ammiccante di Ottone che ogni tanto si scioglieva in sorrisetti
viscidi,
sdolcinati, e poi da alcune frasi ambigue gettate lí per
alludere
a un qualcosa di «non detto» che comunque restava sospeso
in
aria, a un ragionamento «implicito», sfacciatamente
tortuoso,
ma non abbastanza da risultare incomprensibile, le venne il dubbio che
in realtà Ottone avesse intuito qualcosa della sua relazione con
la vittima e che ora subdolamente si stesse scervellando per
ricostruire
a modo suo le ragioni che l’avevano spinta a tacere.
- Quello che non capisco, - irruppe a un certo punto Ottone allargando
le braccia, - è perché quella sera stessa avrebbe dovuto
intromettersi in casa di Lallo. Che cosa cercava?
Poi disse sibillino: - Che stranezza!
Tintinnante come un vecchio carillon il campanello della porta del
negozio suonò, entrarono due signore e questo permise a Erica di
eludere ogni tentativo di offrire una possibile spiegazione - che lei,
per altro, non aveva - al quesito di Ottone. Cosí, con la scusa
di servire le clienti appena arrivate, si liberò di lui.
Alla fine di agosto il postino
recapitò a Erica una lettera anonima
dal contenuto enigmatico a cui, tuttavia, la stessa Erica non dette
grande
peso giudicandola lo scherzo di uno spregievole mascalzone. Redatta in
uno stile forzatamente aulico, la lettera portava il timbro postale
della
città di Anghiari ed era racchiusa in una busta gialla.
«Cara signora - iniziava la
lettera non datata, scritta sicuramente
al computer in caratteri Courier, - quando si deciderà a rendere
finalmente pubbliche le Sue scappatelle amorose? Sono ansioso di
verificare
l’effetto che queste notizie riguardanti la Sua profonda e fascinosa
disinvoltura
inguinale avranno sui buoni sentimenti dei Suoi amici e familiari.
Rifletta
però, dolce amica mia: alla lunga il tradimento può
ritorcersi
malamente contro chi lo pratica come si trattasse di uno sport non
competitivo
e può lasciarlo senza difese, nudo alla mercé dell’altrui
commiserazione. Io non mi faccio molte illusioni, ho imparato ad
aspettare
in disparte. M’impongo d’essere paziente perché l’attesa, come
dicono
i poeti, aumenta gli appetiti, anche i meno nobili e capricciosi, cui
si
comanda difficilmente. Spero solo che un giorno arrivi anche il mio
turno.
Quel giorno - voglia Iddio non troppo lontano - la ricompensa che mi
verrà
dal gioco dell’amore in ogni posizione assaporato e prolungato
sarà
un dolce refrigerio alle mie tribolazioni e agli affanni che non mi
lasciano
dormire. Da parte mia, stia ben sicura, non farò niente
perché
ciò non accada. Desidero troppo i Suoi capezzoli rosa. Ma voglio
farLe sapere che comunque s’illumini questa storia non c’è
niente
di piú eccitante di una donna in calore. Ogni notte vengo a
trovare
le Sue nudità provocanti e m’inebrio riempiendo il bicchiere dal
Suo bidè limpido e spumeggiante.»
La lettera portava in calce
questa firma a penna: «Un suo imprudente,
ma non rinunziatario ammiratore.» Non appena Erica l’ebbe finita
di leggere fu presa da un tremito nervoso. Per quanto non avesse niente
da rimproverarsi, il tono di quella lettera era cosí volgare e
infamante
che si sentí umiliata. La accartocciò rabbiosamente e la
bruciò in un portacenere di cristallo.
La morte di R.T. non restò avvolta nel mistero per molto tempo.
Dopo aver battuto le piste piú diverse scavando in
profondità
nella vita sentimentale e affaristica di R.T. e verificata una lunga
serie
di congetture plausibili, le indagini della magistratura presero infine
una svolta decisiva. Anche se l’oggetto con cui era stato ucciso R.T.
non
fu mai identificato con esattezza (un martello? una chiave inglese? un
cric? una pompa da bicicletta? un pappagallo da idraulico? una paletta
per raccogliere la brace dal caminetto?), il colpevole di quel feroce
delitto
ebbe un’identità e la giustizia, almeno in apparenza, come si
dice
in questi casi, trionfò. Verso i primi giorni del mese di
settembre
sulle locandine delle edicole di Anghiari apparvero, stampati a
caratteri
cubitali, titoli ad effetto come questi: «ARRESTATO L’ASSASSINO
DEL
VICEDIRETTORE DELLA BANCA DI CREDITO COOPERATIVO»,
«È
UN PICCOLO IMPRENDITORE L’ASSASSINO DEL BANCARIO», «DELITTO
DI ANGHIARI: SMASCHERATO UN IMPRENDITORE IN DIFFICOLTÀ
ECONOMICHE».
Fra i nemici di R.T., ovvero nel giro di coloro che avrebbero potuto
desiderare la sua morte e quindi avere un buon motivo per spaccargli la
testa, i carabinieri focalizzarono la loro attenzione su un piccolo
imprenditore
del mobile, residente ad Anghiari, i cui affari da qualche anno
andavano
decisamente male. Il suo passato non era proprio limpido per via di un
processo per bancarotta fraudolenta risoltosi in una condanna a tre
mesi
e un giro di amicizie in ambienti poco raccomandabili. Al momento era
pieno
di debiti e R.T. gli aveva rifiutato un prestito senza offrirgli alcuna
via d’uscita.
Qualche tempo dopo il ritrovamento del corpo esangue di R.T., i
carabinieri
intercettarono questa conversazione sul cellulare del piccolo
imprenditore:
Voce di donna: «Puoi
parlare?»
Piccolo imprenditore: «Sí, non preoccuparti. Sono in
macchina,
da solo. Sto andando a Padova».
Voce di donna: «Come vanno le cose?»
Piccolo imprenditore: «Devo stare attento a non fare passi falsi,
con i tempi che corrono».
Voce di donna: «Meglio non mettersi troppo in mostra».
Piccolo imprenditore: «D’accordo, mammina!»
Voce di donna: «Hai risolto il problema del prestito?»
Piccolo imprenditore: «Ancora no».
Voce di donna: «Cosa stai aspettando?»
Piccolo imprenditore: «Tra poco tornerò alla carica, e
allora vedrai che...».
Voce di donna: «Non farti incastrare».
Piccolo imprenditore: «No. No. Qualcosa si sta muovendo».
Voce di donna: «Cioè?»
Piccolo imprenditore: «Almeno il bastardo ha finito di
rompere!»
Secondo l’interpretazione
verbalizzata dei carabinieri il «bastardo»
cui si riferiva il piccolo imprenditore era senza alcun dubbio R.T.
Nell’appartamento
di quest’ultimo furono trovate delle impronte del piccolo imprenditore.
Lui ribattè che la cosa era normale, si giustificò
dicendo
che era andato piú di una volta a casa di R.T. per definire la
questione
del prestito. Per la notte del delitto, tuttavia, il piccolo
imprenditore
non aveva un alibi. Sostenne di essere rimasto a casa da solo davanti
alla
televisione. Quando gli chiesero che cosa avesse visto in tivú,
si confuse; sul principio si trincerò dietro evasivi «non
ricordo», «non so», «forse, ma...»,
«ho
una memoria piú visiva che...», poi messo alle strette,
balbettò
storpiandolo il titolo di un film con Faye Dunaway e Klaus Maria
Brandauer
che in realtà avevano dato due giorni prima. Durante un
successivo
interrogatorio cadde in ulteriori contraddizioni. Sbagliò delle
date, confuse il nome di alcune strade, fu smentito dal gestore di una
pompa di benzina. Inevitabile scattò l’incriminazione e quindi
l’arresto.
A due mesi di distanza dalla
presunta soluzione del delitto del bancario,
Erica e Lallo decisero di separarsi e porre fine ad una convivenza che
si trascinava ormai quasi da cinque anni. Non andavano piú
d’accordo.
La loro unione era giunta a un punto critico. Lui, nevrastenico e
insofferente
di tutto e per tutto, sempre piú spesso si lasciava andare a
folli
scenate di gelosia che nella maggior parte dei casi culminavano in urla
e lancio di oggetti che mettevano in allarme il vicinato. Una volta,
rabbioso,
scaraventò un vecchio calamaio di vetro pieno d’inchiostro
contro
una parete del salotto aprendovi una piccola crepa tanto che dovette
chiamare
un muratore e poi un imbianchino a sistemargli il danno, e in
piú
fu costretto a riscrivere a mano alcuni fogli di appunti che si erano
macchiati
irreparabilmente dopo l’impatto rovinoso del calamaio.
Litigavano di continuo, per piccole inezie, futilità. Ogni
pretesto
era buono. Uno sguardo troppo prolungato di Erica a un estraneo durante
una cena in casa di amici, una chiamata al suo cellulare in un’ora
“indecente”
della notte oppure un ritardo apparentemente ingiustificato, una frase
criptica scritta su un foglietto appallottolato e sepolto nel marasma
diffuso
dentro la borsetta di Erica: erano tutti pretesti sufficienti a
scatenare
gli istinti da focoso Otello che divoravano l’animo del logopedista.
La situazione precipitò una domenica mattina quando Lallo
apostrofò
Erica in modo brusco. Quella fu la fatidica goccia. In treno, mentre
andavano
a trovare la madre di lei che abitava in un paesino nei pressi di
Cortona,
inaspettatamente Lallo aggredí Erica chiedendole:
- Perché non mi hai detto nulla della tua storia con R.T.?
- Quale storia? - si scherní Erica.
- Oh, senti, non fare la...
Il treno s’infilò a tutta velocità in una galleria.
Restarono
per qualche secondo al buio, martellati dal rumore assordante delle
ruote
d’acciaio che sferragliavano sui binari. Poi riemersero alla luce del
giorno
e l’atmosfera s’infiammò di nuovo.
Lallo si protese in avanti con un’espressione cattiva sul volto e si
fece piú assillante.
- Avevi ripreso a frequentarlo? È cosí, non è
vero?
- Non so di cosa stai parlando - rispose Erica avvampando di colpo.
- Ecco, lo vedi, - continuò Lallo perdendo la calma - sei
diventata
tutta rossa!
- Tu sei pazzo! Questa è la verità! Sei completamente
pazzo! - si difese disperatamente Erica. Poi si alzò e
uscí
dallo scompartimento inseguita dallo sguardo preoccupato di un’anziana
suora, involontaria spettatrice della scenata.
Ogni giorno di piú Erica si sentiva soffocare dal morboso velo
protettivo di Lallo. Era ancora giovane, piacente. Aveva la sua
attività
di erborista che le dava non poche soddisfazioni, un gruppetto di amici
cui voleva bene, interessi e curiosità di vario tipo
(fotografia,
alpinismo, danza, archeologia, volontariato cui dedicava un mezzo
pomeriggio
alla settimana). Poteva certo rifarsi una vita se solo avesse trovato
la
forza di liberarsi dall’obbligo stressante di rendere conto di ogni suo
movimento, pensiero, umore, desiderio, al geloso convivente, di avere
pronta
in ogni circostanza una giustificazione per rassicurarlo e fargli
vincere
le paure dell’abbandono.
Dopo la separazione Erica si trasferí in via Marconi, accanto
al ristorante di Zi’ Teresa. L’ambiente era piccolo, ma ben arredato e
luminoso, con molte piante, libri e tappeti sparsi un po’ dappertutto.
Anche al centro di una parete dell’ingresso un kilim faceva la sua
figura
come un quadro orientale dal morbido intreccio.
Ben presto quell’appartamento diventò il suo rifugio, l’“angolo
del raccoglimento”, il “laboratorio dei pensieri notturni”, il luogo
dispensatore
di tè e di erbe ricreative.
Nei momenti liberi Erica si stendeva sopra un tappeto di canapa indiana
davanti al caminetto per ascoltare della musica classica o leggere un
libro
sulle antiche civiltà scomparse o un romanzo, magari di
Alessandro
Baricco per il quale, all’epoca, andava letteralmente in estasi
stimandolo
come scrittore e come persona, con quei riccioli sbarazzini da enfant
terrible,
la «esse» snobisticamente impropria e le maniche della
camicia
arrotolate. Passava cosí lunghe ore, senza rispondere al
telefono,
in completo abbandono con le luci soffuse e un bastoncino d’incenso che
avvolgeva del suo aroma esotico tutto l’appartamento.
Una sera piovigginosa di novembre, di quelle sere in cui il tempo
sembra
non scorrere mai come un treno che ritarda a un passaggio a livello
chiuso
e in cui le insidie della depressione non si lasciano blandire
facilmente,
gli venne voglia di mettere a posto le foto ammucchiate dentro una
grande
scatola di cartone che da mesi aspettavano un provvidenziale riassetto.
Aveva comprato degli album rettangolari con la copertina di pelle nera
su cui pensava di ordinare le foto in modo cronologico, raggruppando
insieme
quelle che si riferivano allo stesso avvenimento o tematica: primi
amori,
vacanze, feste in casa, convegni, amicizie scolastiche, parenti,
battesimi,
ecc.
Aprí lo scatolone e ne rovesciò il contenuto sul tappeto.
Foto di ogni dimensione, colorate e in bianco e nero, si aprirono a
ventaglio
davanti a Erica che cominciò a prenderle in mano a caso e a
guardarle
per farne subito un primo provvisorio smistamento.
Quei pezzetti di carta sparpagliati per terra alla rinfusa formavano
una specie di puzzle variopinto della sua vita, di libro aperto per
immagini,
di bizzarro fotoromanzo. Ognuno di essi racchiudeva il ricordo -
felice,
sgradevole o indifferente a seconda dei casi - di un attimo immortalato
nella sua fragile irripetibilità, ritagliato da un’angolatura
particolare,
in una luce quasi sempre magica per quel tanto d’irreale che ovatta
surrettiziamente
il già vissuto.
Era impossibile non perdersi in quel mare di ricordi e non pensare,
come Erica pensò, che il «naufragare» in mezzo a
tutte
quelle carte sarebbe stato un dolce ripiego. Uno sciame di brevi
flashback
si addensò nella sua mente e a poco a poco la sollevò in
aria proiettandola lontano, in un altrove dimenticato, non sempre ben
definito.
Sui fotogrammi di quell’unica, caotica pellicola da lei stessa azionata
riconobbe al rallentatore figure un tempo amiche, ricostruí
affetti
e incontri formativi, echi di gioie familiari, intervallati qua e
là
da tracce irriconoscibili di persone anonime, sfuocate, mai conosciute.
In questa debordante fuga all’indietro, fra i numerosi volti della
sua personale galleria riaffiorò - e come non poteva? - anche
quello
di Lallo. Per caso le capitò in mano un pacchetto di foto a
colori
formato 10x15, sviluppato a Djerba, che si riferivano alla crociera
tunisina
in cui aveva conosciuto il logopedista.
Poiché la ferita della rottura con Lallo non si era ancora
completamente
rimarginata, capí che dilungarsi troppo sulle foto di quel
viaggio
in Africa avrebbe potuto farla soffrire, inquietarla.
Stava per riporre quelle foto insieme alle altre quando qualcosa, su
una di esse, la colpí. Fu come un lampo. Dalla scrivania prese
una
lente d’ingrandimento e l’avvicinò alla foto che ritraeva Lallo
insieme a un gruppo di turisti sul ponte della nave. Alle spalle dei
turisti,
allineati davanti a una balaustra, s’intravedevano i profili di alcune
montagne
verdeggianti e in basso, a livello del mare, delle casupole arroccate
intorno
a un molo.
A prima vista era un quadretto come tanti altri. La classica
foto-ricordo
di una vacanza estiva. Una diecina di persone, tra cui quattro donne,
in
abiti leggeri con i capelli spettinati e un sorrisino ebete rivolto
verso
l’obiettivo del fotografo. Lallo era il secondo da destra in mezzo a
due
giovanottoni abbronzati, entrambi vestiti di bianco, uno con un
cappello
di paglia sgualcito stretto fra le mani e l’altro con uno zaino a
tracolla,
gli occhiali scuri da latin lover e un binocolo che gli cadeva sul
petto
scimmiescamente peloso.
Nel tentativo d’ingrandire il particolare che l’aveva incuriosita Erica
allontanò di qualche centimetro la lente dalla fotografia. Mise
bene a fuoco la zona dell’immagine da esaminare e con stupore vide
stagliarsi
fra il bianco sgargiante dei due bellimbusti, in netto contrasto, la
camicia
a maniche corte di Lallo, una camicia nera a quadretti blu, gonfia di
vento.
Delitti
di carta, 5, ottobre 1999, pp. 12-18.
NOTA
ESPLICATIVA
Questo
"giallo" è nato come esercizio oplepiano.
La storia è questa. Nella riunione del 13 ottobre 1996, svoltasi
ad Arezzo, l’OpLePo decide
d’impegnarsi
nella stesura di una raccolta di “novelle del mistero” elaborate nel
rispetto
di alcune regole.
Le regole sulla base delle quali devono
essere composti
i “gialli oplepiani” sono:
1. la lunghezza di ogni testo è
fissata
in 25.542 caratteri, cifra risultante dalla somma delle date di nascita
degli attuali membri di OpLePo; il numero dei caratteri è
calcolato
sulla base di un Word processor di riferimento: il Microsoft Word,
versione
7.0; per quanto riguarda le norme tipografiche si fa riferimento a
quelle
in uso nei volumi pubblicati dalla Casa Editrice Einaudi;
2. in ogni testo compaiono e agiscono
quattro personaggi
fissi e unici che hanno i nomi e le professioni che corrispondono alle
quattro diverse lettere della parola OPLEPO - ovvero O, P, L, E - come
segue: Ottone orafo, Penelope psicanalista, Lallo logopedista, Erica
erborista.
Ognuno dei personaggi deve essere caratterizzato in modo esplicito da
almeno
un attributo che inizi con la lettera del proprio nome; possono essere
citati altri personaggi celebri o comparse prive di nome;
3. l’ambientazione scelta è
Anghiari nell’anno
1996;
4. ogni testo deve contenere, in un
punto qualsiasi
della narrazione, la seguente frase: «Ogni piccola luce evoca
profonde
oscurità», il cui acronimo è OpLePo;
5. il tema del racconto deve essere:
“mistery story”
o “suspense”;
6. il titolo del racconto, escluso dal
computo
dei caratteri del testo, deve essere di 13 lettere, corrispondenti al
numero
degli attuali membri dell’OpLePo;
7. ogni altra costrizione volontaria e
manifesta
è assolutamente vietata.
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